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Il 20 gennaio trovate pubblicato l'intervento che  Manuel Fernandez Blanco ha fatto nel dibattito Il soggetto e la felicità nel tempo della segregazione.

domenica 3 aprile 2016

venerdì 19 febbraio 2016

martedì 2 febbraio 2016

mercoledì 20 gennaio 2016


Manuel Fernandez Blanco
Il soggetto e la felicità nel tempo della segregazione

Ringrazio i colleghi della SLP di Torino per l’invito a partecipare a questo dibattito su “Il soggetto e la felicità nel tempo della segregazione”. Quando ho cominciato a scrivere queste note, ho deciso di farmi guidare dai significanti del titolo, prendendo Lacan come riferimento. I significanti sono soggetto, felicità e segregazione. Soggetto e felicità appaiono uniti e articolati all’attualità della segregazione, dal momento che il titolo sottolinea che viviamo nel tempo della segregazione, della segregazione generalizzata.

Soggetto e felicità
Innanzi tutto, allora, soggetto e felicità. Impossibile per me non evocare la risposta di Lacan in Televisione quando afferma: “Le sujet est hereux”,[1] che potremmo tradurre “Il soggetto è felice”. Inoltre Lacan aggiunge anche che questa è la definizione del soggetto e collega la fortuna alla ripetizione che, come sappiamo, solitamente è ripetizione del peggio. Freud situò in modo preciso, nell’Al di là del principio di piacere (1920),[2] la compulsione alla ripetizione come quello che spinge il soggetto ad andare al di là dell’omeostasi, dell’armonia. Precisamente per questo, questa affermazione di Lacan può risultare particolarmente sorprendente, e credo che sia opportuno citare questo riferimento in modo esteso. Lo farò seguendo il modo con cui è stato tradotto nella versione italiana degli Altri Scritti. Dice Lacan: “La tristezza, per esempio, viene qualificata come depressione […] Ma non è uno stato d’anima, è semplicemente una pecca morale, come si esprimeva Dante, o anche Spinoza: un peccato, il che vuol dire una fiacchezza morale, che in ultima istanza si situa a partire dal pensiero, cioè al dovere di ben dire o di ritrovarcisi nell’inconscio, nella struttura”.[3]
Un poco più avanti dice: “Dove sta in tutto ciò quel che fa la felicità? Esattamente dappertutto. Il soggetto è felice. È proprio questa la sua definizione, in quanto egli deve ogni cosa solo al buon incontro, in altri termini alla fortuna, e ogni incontro gli è buono per quanto riguarda ciò che lo mantiene, vale a dire affinché si ripeta”.[4] Vediamo come per Lacan “Il soggetto è felice” perché gode sempre nella ripetizione. Godimento che, spesso, non può ammettere come tale, motivo per cui è vissuto come sofferenza, come sintomo. Lacan oppone qui, anche, tristezza e depressione. E afferma che la tristezza non è uno stato d’animo ma uno stato morale, una viltà morale, che oppone al dovere del ben dire. Colloca in questo modo la tristezza come stato morale, nel campo dell’etica.

La questione centrale dell’etica
La questione centrale dell’Etica è la relazione del soggetto con il suo godimento e con il suo desiderio. L’Etica cerca, in definitiva, di rispondere alla domanda come vivere per essere felice?
Per questo la riflessione etica attraversa tutta la storia del pensiero. Ogni giudizio etico è un giudizio sui nostri atti e sulle nostre decisioni. Però non esiste l’Etica al singolare. Il primo ad affrontare l’Etica come disciplina filosofica è stato Aristotele con la sua Etica Nicomachea. Aristotele fa coincidere la felicità con la virtù, con la migliore e più perfetta virtù, che fa equivalere al sommo bene e al piacere. Per Aristotele chi conosce il bene non può che sceglierlo, e il piacere sarebbe consustanziale a questa scelta.
La posizione etica di Aristotele è un po’ posteriore alla scuola dei cinici. Il cinismo è stata una scuola filosofica fondata da Antistene, il cui discepolo più importante è stato Diogene di Sinope. I cinici disprezzavano i valori sociali e difendevano una vita solitaria. Disprezzavano la legge e il senso. Sostenevano che non si può dire niente di valido su niente. Antistene proclamata l’impossibilità del pensiero razionale, negava lo stesso parlare. Era inutile imparare a leggere o a scrivere. Il meglio, la vita in solitudine e il godimento autoerotico. Proprio quello che Aristotele definisce come mostruosità (i godimenti non regolati), era la bandiera dei cinici. Forse i cinici hanno trionfato perché il diritto al godimento senza colpa è una delle insegne fondamentali della società ipermoderna.
Facciamo, ora, un salto nella storia del pensiero per incontrare Kant. La posizione di Kant è molto differente. Ricordiamoci la formula dell’imperativo categorico come appare nella Critica della ragion pratica: “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”.[5] Quella che Kant cerca qui è la risposta alla domanda Cosa devo fare? Una domanda, voglio ricordarlo, che i pazienti dirigono spesso agli psicoanalisti, anche se, come si sa, generalmente non rispondiamo.
Normalmente non si nota qualcosa che Kant afferma nel secondo capitolo di questa opera, in cui fa riferimento al fatto che è molto bello fare il bene agli uomini per amore, per benevolenza compassionevole, o essere giusto per amore dell’ordine, però questa non è la vera massima della morale. Questo è solo mettersi sopra l’umanità per un orgoglio illusorio e agire semplicemente secondo il nostro proprio piacere. Per Kant, se qualcosa ti rende contento (anche se soddisfa l’imperativo categorico) non va bene. Per Kant tutti gli affetti fanno parte del pathos. Pertanto propone l’infelicità nel bene. Il bene esige sacrificio. È per questo che Lacan intitolerà uno dei suoi scritti Kant con Sade.
Dopo, con Freud, si produrrà una sovversione decisa nel campo dell’etica. La teorizzazione freudiana della pulsione di morte rigetta il sogno Aristotelico di una possibile armonia del soggetto con se stesso. Il concetto freudiano di inconscio, a partire dall’Al di là del principio di piacere, rompe definitivamente con l’idea che il soggetto sceglie il suo bene, e che bene e felicità coincidono. Piuttosto il soggetto umano si comporta come se il suo bene sovrano fosse in altro che gli provoca disagio. Per questo i sintomi psichici hanno come caratteristica determinante la ripetizione. Per questo il soggetto del sintomo ama più il sintomo che se stesso.

Tristezza e depressione
Oggi, stare male psichicamente ed essere depresso sono diventati più o meno equivalenti. Per questo il concetto di depressione, ampiamente utilizzato nella clinica, è passato nel linguaggio comune come il modo abituale di nominare qualsiasi malessere psichico e l’assenza di felicità. Ci sono depressioni, è innegabile. Però Freud privilegiò sempre il concetto di colpa, legato al fallimento morale, rispetto alla depressione come entità clinica autonoma. La depressione, per Freud e per Lacan, è inseparabile dal campo dell’etica. Però se in Freud la colpa sembra legata al conflitto tra il godimento e l’ideale, e al debito simbolico che si trasmette fra le generazioni (ai difetti e ai segreti familiari), in Lacan la colpa sembra legata all’abolizione del debito simbolico. Per questo la colpa attuale non ha tanto a che vedere con l’inconscio, quanto con il suo rifiuto.

Colpevoli per il fatto di soffrire
Possiamo situare la depressione attuale seguendo Jacques-Alain Miller quando, nel suo corso con Eric Laurent su L’Altro che non esiste e i suoi comitati d’etica, dice: “Se a qualcuno non piace godere, oggi non ha scuse. Cosicché coloro che soffrono, i nevrotici, non solo soffrono, ma si sentono anche colpevoli per il fatto di soffrire […] Diventa sempre più difficile lamentarsi dell’Altro, perché esiste sempre meno, per cui si diviene colpevoli. C’è qualcosa nella depressione attuale legata al fatto che la mancanza di godimento oggi è imperdonabile. Per questo si fa di quella che viene chiamata depressione il male paradigmatico della civiltà. Il godimento si situa solo a partire da un plusgodere che non è velato e che si esibisce in ogni maniera”. [6]
Eric Laurent, in un’intervista fatta da Or Ezrati per Haaretz (pubblicata il 29 luglio 2012), ha dichiarato: “Una delle domande dei nostri tempi capitalisti è la necessità di pensare a noi stessi come impresari che devono massimizzare le proprie vite. Dobbiamo pensare di più, consumare di più, sperimentare una vita sessuale più intensa. Se non massimizziamo tutto questo, lo vediamo come un fallimento, i cui unici colpevoli siamo noi stessi. Perciò la domanda più comune sarà: ‘Per favore, aggiustami. Questo è l’ideale del Super-Io: ‘Per favore, aggiustami, fammi diventare super-produttivo’. […] In definitiva, tutti possono percepirsi fallimentari in un certo senso, e ciò che è certo è che non è così terribile”. Sembra chiaro che il neoliberismo si adegua molto bene a questa nuova modalità superegoica: siamo colpevoli dei nostri fallimenti. Per questo la colpa può sostituire la rivendicazione. Per questo il discorso neoliberale è diventato dominante.

Siamo molto lontani (anche se cronologicamente non tanto) dall’epoca in cui il mondo si concepiva come una valle di lacrime in cui si veniva a soffrire. O dall’epoca romantica della tristezza come agalma. La difficoltà di acconsentire alla tristezza spinge all’ipomania generalizzata dato che il soggetto dell’attualità si identifica con la deriva stessa della pulsione (nei bambini questa si chiama iperattività).

La civiltà attuale spinge il soggetto verso il dovere di essere felice. La felicità è passata dall’essere una possibilità, normalmente momentanea, a essere un obbligo. Dall’altra parte, si fa dipendere la promessa di felicità dal consumo. Questo suppone un’inversione, siamo passati dall’oggetto del fantasma, particolare a ciascuno, al fantasma che l’oggetto sia disponibile sullo scaffale del mercato globale. L’amministrazione che il capitalismo pulsionale fa della spinta al consumo, conduce alla bulimia e all’insoddisfazione generalizzata a causa della rapida caducità degli oggetti di consumo. La risposta del capitalismo è la novità. La novità stessa come oggetto di godimento: consumiamo novità.

L’edonismo contemporaneo si basa sulla necessità del godimento ininterrotto. Per questo, alle dipendenze classiche, alle droghe, all’alcool, o al gioco, abbiamo aggiunto i dipendenti dal sesso, i chattatori dell’alba, i dipendenti dal cellulare e dai videogiochi, i compratori compulsivi e anche i dipendenti dal lavoro. Nessuno può dubitare che ci avviamo verso la costituzione di una società globalmente dipendente, per questo le patologie dominanti sono quelle legate alle dipendenze.
Questo tipo di civiltà ci ha addormentati rispetto al reale. Le nostre teste si sono messe a dormire, catturate dal godimento passivo dello sguardo. I soggetti contemporanei si ubriacano con le proprie endorfine davanti agli schermi del televisore, di internet o con i videogiochi. L’essere umano ha sempre potuto sognare ad occhi aperti, però le nuove tecnologie si impadroniscono di questa possibilità incidendo nel corpo, soprattutto quello dei bambini, che si sovraeccitano con questi apparecchi che derealizzano la vita. Da quando essere felici è diventato un dovere, l’assenza di soddisfazione rende il soggetto colpevole della sua infelicità. Questo ha introdotto nella civiltà la depressione generalizzata e la medicalizzazione del dolore di esistere.

Il trattamento dell’insoddisfazione strutturale dell’essere umano attraverso gli oggetti di consumo e i farmaci, ci ha trasformati in una società globalmente dipendente che provoca la delusione permanente nei soggetti. Questo modello di civiltà produce un effetto di fatica (potremmo dire di fatica cronica) relativa al fatto che il soggetto rimane catturato dagli oggetti di cui si rende dipendente. La dipendenza implica la prevalenza di sintomi più legati alla difficoltà dello svezzamento e della separazione. Più vincolati al narcisismo, più regressivi. La caduta degli ideali e il declino dei discorsi basati sul Nome del Padre, portano in primo piano l’oggetto di godimento e la relazione di dipendenza.

I godimenti senza l’Altro
Ciò che caratterizza il soggetto contemporaneo è il divorzio dall’Ideale. Si può prescindere dall’Ideale e dalle persone, si può prescindere dall’Altro e entrare in una relazione diretta con l’oggetto (come succede con le tossicodipendenze). Per questo si può parlare del trionfo dell’etica cinica. Si tratta del tramonto della sublimazione e della possibilità di ottenere, in solitudine, un godimento diretto.

Facciamo un po’ di storia. La società vittoriana, basata sul peso degli ideali, portava avanti una lotta accanita contro le pratiche masturbatorie. La masturbazione, che Lacan chiamava il godimento dell’idiota, è l’attività cinica per eccellenza (ricordiamo Diogene), perché permette un godimento isolato dall’Altro. Siamo nell’epoca dei godimenti che prescindono dall’Altro e che cancellano, diluiscono, le differenze sessuali. Di fronte all’oggetto esistono solo consumatori. L’oggetto chiude la bocca, per questo i nuovi sintomi sono muti, e i godimenti solitari proliferano. Tutto questo ci porta all’attualità della segregazione.

Il tempo della segregazione
La citazione di Lacan sulla segregazione, che mi è venuta in mente per prima, la troviamo nella Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola. È del 1967, ma di assoluta attualità. Dice così: “La terza effettività, reale, troppo reale, reale a tal punto da rendere il reale nel promuoverlo più pudibondo della lingua, è ciò che il termine campo di concentramento rende parlabile, un termine sul quale ci sembra che i nostri pensatori, a vagolare dall’umanesimo al terrore, non si siano ancora abbastanza concentrati. Sintetizziamo per dire che quanto ne abbiamo visto emergere, con nostro orrore, rappresenta la reazione di precursori rispetto a quanto si andrà sviluppando come conseguenza del rimaneggiamento dei raggruppamenti sociali a opera della scienza e, per chiamarla per nome, dell’universalizzazione che la scienza vi introduce. Il nostro avvenire di mercati comuni avrà come contrappeso una sempre più dura estensione dei processi di segregazione”.[7]
In secondo luogo ho evocato quest’altra citazione del Seminario XVII di Lacan (11 marzo del 1970): “Solo conosco una sola origine della fraternità – propriamente umana, cioè sempre l’humus – si tratta della segregazione. Siamo beninteso in un’epoca in cui la segregazione, puah! Non vi sarebbe più segregazione da nessuna parte. Pare incredibile quando si leggono i giornali. Solo che, nella società […] tutto quanto esiste è fondato sulla segregazione e in primo luogo sulla fraternità. Non si può neppure concepire altra fraternità […] se non perché si è isolati assieme, isolati dal resto”.[8]

Nella prima citazione Lacan lega il riordino dei raggruppamenti sociali ad opera della scienza, e l’avvenire dei mercati comuni, con l’espansione sempre volta più dura della segregazione. Nella seconda mette in relazione la fraternità con la separazione degli stessi con gli stessi, con l’universo concentrazionario della segregazione generalizzata. La fraternità attuale è soprattutto fraternità di godimento, poiché ciò che raggruppa il soggetto attuale non è tanto la comunità di credenze, quanto la comunità di godimento.

Su questa questione abbiamo un altro riferimento fondamentale di Lacan nella seconda lezione del Seminario XVIII, intitolato Di un discorso che non sarebbe del sembiante.[9] Lì Lacan si riferisce allo schema che Freud include nel suo saggio Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921). Freud parla del principio di costituzione della massa originaria e spiega il suo schema nel seguente modo: “Una tale massa primaria è costituita da un certo numero di individui che hanno messo un unico medesimo oggetto al posto del loro ideale dell’Io e che pertanto si sono identificati gli uni con gli altri nel loro Io”.[10] Vediamo qui come Freud articola già la sostituzione dell’ideale con l’oggetto come principio di una fratellanza di simili (“reciproca identificazione dell’Io”), e come principio di un raggruppamento segregativo. Lacan ci dice che ciò che Freud ha articolato nel suo saggio, al principio degli anni ’20 del secolo scorso, “[…] si è trovato essere al principio del fenomeno nazista”.[11] E aggiunge: “Ciò che in un discorso si rivolge all’Altro come a un Tu fa sorgere l’identificazione con qualcosa che possiamo chiamare l’idolo umano […] non si può farsi avanti per rovesciare l’idolo senza prendere il suo posto subito dopo, come è notoriamente successo per un certo tipo di martiri. In ogni discorso che fa appello al Tu, qualcosa induce a un’identificazione camuffata, segreta, che è l’identificazione con l’oggetto enigmatico, il quale può anche essere un nonnulla, il minuscolo plusgodere di Hitler, che forse non andava al di là dei suoi baffi […] Si trattava di sapere se, a un certo livello, ce ne sarebbe stato ancora una fettina: ecco che cosa è bastato per provocare quell’effetto di identificazione […]È buffo che tutto questo abbia preso la forma di un’idealizzazione della razza, ossia della cosa che in quella faccenda c’entrava di meno […] Ma intanto occorre dire semplicemente che non c’è nessun bisogno di una tale ideologia perché si costituisca un razzismo, basta un plusgodere che si riconosca come tale. Chiunque si interessi un po’ a quel che può avvenire, farà bene a dirsi che, nella misura in cui basta un plusgodere per sostenere il razzismo, sono all’ordine del giorno tutte le forme di razzismo, da cui non c’è scampo negli anni a venire”.[12]

Dopo avere letto questo, non si può negare che Lacan pronostichi un fenomeno della civiltà. Si appoggia su Freud e chiarisce i fenomeni di identificazione con un leader a partire da un tratto. Però, al di là dell’effetto di identificazione, anticipa che il razzismo a venire (lo dice nel 1971) “la minaccia per gli anni futuri” si sosterrà sul più-di-godere riconosciuto come tale da una fratellanza di godimenti. “Non esiste nessuna necessità di questa ideologia perché si costituisca un razzismo”, ci dice, basta una comunità di godimento per attuare la propria segregazione e quella altrui. È ciò che oggi si realizza: la fratellanza di godimento, l’aggregazione attraverso il godimento, sono il fondamento dell’aggregazione dei simili con i simili.

Orizzontalità, modi di godimento, fenomeni di frontiera, segregazione
Il soggetto attuale si organizza orizzontalmente, non c’è gerarchia. La democrazia elettronica arriva a tutto. D’altra parte, tutto è valutato. La valutazione serve per la classificazione e l’aggregazione dei supposti simili.

La messa in primo piano del modo di godere particolare, porta alla generalizzazione di universi concentrazionari. In base al modo di godimento, attualmente chiamato stile di vita, si produce l’aggregazione dei simili con i simili. Così si formano, per esempio, quartieri di omosessuali. Quanta più globalizzazione, tanti più fenomeni di frontiera. I quartieri hanno frontiere, non possono essere abitati da tutti. Nel mondo globale si pone sempre maggiore enfasi sulla particolarità segregativa. Tutti questi fenomeni modificano il modo di inserimento sociale che non avviene più attraverso l’identificazione, ma attraverso il modo di godimento. La logica dei mercati globali produce effetti di segregazione generalizzati perché, se l’ideale unisce, il godimento separa.



[1] J. Lacan, “Televisione” (1973), in Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 521.
[2] S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in “Opere”, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1989.
[3] J. Lacan, “Televisione” (1973), in Altri scritti, cit. p. 520.
[4] J. Lacan, “Televisione” (1973), in Altri scritti, cit. p. 521.
[5] I. Kant, Critica della ragion pratica, Editori Laterza 1979, Roma-Bari, p. 39.
[6] Miller, Jacques-Alain y Laurent, Éric: El Otro que no existe y sus comités de ética, Buenos Aires, Paidós, 2005, p. 343 (trad. ad uso interno).
[7] J. Lacan, J. Lacan, “Televisione” (1973), in Altri scritti, cit. p. 255.
[8] J. Lacan, Il Seminario Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Einaudi, Torino 2001, p. 140.
[9] J. Lacan, Il Seminario Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante (1971), Einaudi, Torino 2010.
[10] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), in “Opere”, vol.9, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 304.
[11] J. Lacan, Il Seminario Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante (1971), cit. p. 23.
[12] Ibid., p. 23-24.