mercoledì 17 ottobre 2012

L'EuroFederazione di Psicoanalisi

ha annunciato il suo


Secondo Congresso Europeo di Psicoanalisi


Che avrà luogo a Bruxelles

il 6 e 7 luglio 2013

intitolato


Dopo l'Edipo

Diversità della pratica psicoanalitica in Europa.


Se non lo avesse già fatto, per ricevere tutte le informazioni, dibattiti, etc. che riguardano questo evento e l'EuroFederazione,

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venerdì 28 settembre 2012

lunedì 23 luglio 2012

C’è ancora qualcuno, oggi, a cui ci si può appellare?
Roberta Margiaria*

Cosa pretende l’uomo dalla vita?
Qual è la sua finalità? Tendere alla felicità o all’assenza di dispiacere?
Dalla penna di Freud, si deve prendere atto di come sia improba questa missione: l’uomo infatti deve difendersi dalla sofferenza che lo minaccia su più livelli, ossia dal corpo, dal mondo esterno e dalle relazioni con gli altri uomini.
“Il programma impostoci dal principio di piacere, raggiungere la felicità, è irrealizzabile” sentenzia Freud, “tuttavia non dobbiamo, anzi non possiamo abbandonare il tentativo di
accostarci a questo adempimento”.[1]
Questo “non dobbiamo anzi non possiamo”, sottolinea la posizione etica freudiana.
Non possiamo. Quale sarebbe il costo di tale rinuncia?
Ma se si decidesse di tentar l’ardua impresa, non rinunciare, come si può leggere nel testo, non riusciremo mai a soverchiare completamente la natura, “non la domineremo mai”,[2] o
potremmo anche dire, facendo esperienza di quanto è avvenuto anche solo qualche settimana fa (terremoto), potremmo illuderci di dominare e sfruttare la natura, ma presto o tardi, lei avrà il sopravvento.
La proposta di Freud: “da questo riconoscimento non deriva alcun effetto paralizzante; esso ci indica, al contrario, verso quale direzione indirizzare i nostri sforzi”.[3]
Dunque la proposta di lavorare sulle “istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli uomini nella famiglia, nello stato e nella società”.[4]
Se ciò che caratterizza la civiltà è la sommatoria di realizzazioni e ordinamenti che servono a proteggere l’umanità dalla natura e a regolare le relazioni tra gli uomini, grandi sono
state le scoperte.
Ciò che veniva trasposto sugli dei in termini di onniscienza ed onnipotenza sembra essere stato via via acquisito dagli uomini che sono divenuti e, diverranno sempre più, auspicava Freud, sempre più somiglianti a dio. Ma nonostante tutto ciò “l’uomo d’oggi, nella sua somiglianza con Dio, non si sente felice”.[5]
Ha raggiunto traguardi, ha posseduto e sottomesso terre e risorse, tutto ciò che gli è utile, eppure non basta. Bellezza, ordine e pulizia, appaiono come corollari alle priorità di sfruttar la terra a beneficio dell’uomo e per difenderlo contro le forze della natura, mettendo in evidenza però come l’uomo al contrario “manifesti una tendenza innata alla negligenza, all’irregolarità e alla confusione”.[6]
“La vita umana associata è resa possibile solo ad un patto: che più individui si riuniscano e che questa maggioranza sia più forte di un singolo e tale da restare unita contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si oppone allora come diritto al potere del singolo, che viene condannato come forza bruta. Questa sostituzione del potere della comunità a quello del singolo è il passo decisivo verso la civiltà.
La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro possibilità di
soddisfacimento, mentre il singolo non conosceva restrizioni del genere. Quindi il primo requisito della civiltà è la giustizia, cioè che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno”.[7]
Ma anche qui vi è un anelito di ribellione, anelito di libertà: “non sembra possibile influire sull’uomo fino ad indurlo a cambiare la sua natura in quella di un termite; egli difenderà sempre la sua esigenza di libertà individuale contro il volere della massa […] uno dei fatali problemi dell’umanità è se questo accomodamento tra le pretese dei vantaggi individuali e quelli della collettività sia raggiungibile in qualche particolare forma assunta dalla civiltà o se il conflitto sia
irrisolvibile”.[8]
Il parallelismo tra il processo di incivilimento e l’evoluzione libidica del singolo è ormai chiara: la frustrazione civile domina il campo delle relazioni sociali degli uomini. Frustrazione o potremmo dire limitazione del proprio godimento.
Questa lettura appare però sempre più apertamente distonica con quanto si vede in questa nostra epoca. Se il tentativo che fin ora è stato fatto e a cui abbiam acconsentito è stato il credere che ci potesse essere qualcuno o qualcosa che potesse saturare le nostre mancanze o miserie, per dirla con Freud, abbiam però dovuto verificare, nostro malgrado che la soluzione non ha funzionato.
Malesseri individuali e delle società stanno forse mettendo nuovamente in campo quanto ha sperimentato e scoperto l’uomo delle origini che “dipendeva dalle sue mani migliorare la propria sorte sulla terra col lavoro”,[9] facendo nascere la civiltà totemistica che si basa sulle restrizioni che i fratelli dovettero imporsi l’un l’altro per conservare il nuovo stato di cose?

* Partecipante alle attività della SLP

[1] S.Freud, Il disagio della civiltà (1929) in “Opere”, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol.10, p. 575.
[2] Ibidem, p. 577.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Ibid, p. 582.
[6] Ibid, p. 584.
[7] Ibid, p. 585.
[8] Ibid, p. 586.
[9] Ibid, p. 589.
Cos’è che fa legame?
Paola Antoniotti*

Il testo di Freud “Il disagio della civiltà” nasce come una risposta ad una lettera inviatagli da Romain Rolland, uno scrittore francese, premio nobel per la letteratura nel 1916, con il quale Freud aveva un carteggio, e che definiva l’esperienza mistica come sentimento oceanico o sensazione oceanica. Secondo Rolland, il sentimento oceanico è la fonte della vera religiosità. Dal canto suo, Freud scrive: “Potrei dire che per me ciò ha piuttosto il carattere di un’intuizione intellettuale, non certo priva di una risonanza emotiva, che comunque si accompagna anche ad altri atti di pensiero di portata analoga. Per quanto riguarda la mia persona non riesco proprio a convincermi della natura primaria di un tale sentimento”.[1]
Freud nega dunque l’esistenza di questo sentimento sostenendo piuttosto che esiste nell’essere umano una netta divisione tra Io e mondo esterno. Forse solo la condizione infantile pre-edipica si può paragonare a questo sentimento oceanico. Si tratta in qualche modo sempre del desiderio di ritrovare quel paradiso perduto da cui si è stati estromessi e in cui il bambino si è sentito onnipotente e immortale. Non è da subito che esiste questa distinzione tra Io e mondo esterno ma viene a crearsi a causa del dominio del “principio di piacere”.
Il "principio di piacere” stabilisce lo scopo della vita umana, domina il funzionamento dell’apparato psichico, ma è destinato a fallire. La sofferenza infatti ci minaccia da più parti: il nostro corpo, il mondo esterno, le relazioni con gli uomini. Quest’ultimo punto è anche quello che produce la maggiore sofferenza, in fondo l’essere umano è incapace di sopportare il peso delle frustrazioni imposte dalla vita civile.
La definizione che Freud dà della parola civiltà è la seguente: “La parola civiltà designa la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: a proteggere l’umanità dalla natura, a regolare le relazioni degli uomini tra loro”.[2]
Per quanto riguarda il primo punto Freud evidenzia come le invenzioni e le scoperte scientifiche (navi, aerei, telescopio, telefono, macchina fotografica, ecc.) hanno permesso all’uomo di appagare tutti o quasi tutti i desideri delle fiabe, tanto da rendere l’uomo sempre più simile a Dio.
Immagina inoltre che nelle età future verranno fatti enormi passi avanti in questo processo di civilizzazione. “Pure […] l’uomo nella sua somiglianza con Dio, non si sente felice”.[3]
Quindi, la scienza e la tecnica, che migliorano la qualità della vita dell’uomo, che gli consentono di padroneggiare in qualche modo la natura, producono certamente un qualche tornaconto nell’economia della felicità, che Freud però definisce “un godimento a buon mercato”.
Relativamente all’efficacia della civiltà nel regolare le relazioni sociali tra gli uomini, che siano intese come relazioni con il prossimo, con l’oggetto sessuale o tra i membri di una stessa famiglia o di uno stesso stato, Freud dice: “ La vita umana associata è resa possibile ad un solo patto: che più individui si riuniscano e che questa maggioranza sia più forte di ogni singolo e tale da restare unita contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si oppone allora come “diritto” al potere del singolo, che viene condannato come “forza bruta”. [4]
E’ necessaria quindi la rinuncia al soddisfacimento pulsionale individuale compensata dal non
essere più in balia della forza bruta del simile affinché ci si incammini in un processo di civilizzazione. Freud ammette però che la maggior parte degli sforzi dell’umanità si infrangono nel tentativo di un accomodamento tra le pretese individuali e quelle della civiltà. Si tratta di un processo simile a quello che avviene nell’evoluzione libidica del singolo. Esiste un conflitto tra il principio di piacere che è ciò che domina la vita pulsionale dell’individuo, infatti Freud dice che la rinuncia pulsionale non è esente da pericoli, e quelli che considera i motori della civiltà, Eros e Ananke, cioè l’amore e la necessità. L’amore è ciò che lega nel modo più intenso gli individui, più del lavoro o di altre forme di legame, l’amore è in grado di produrre nuovi legami anche con persone estranee al gruppo o alla comunità. Ma anche se l’amore è uno dei motori della civiltà il nesso tra i due cessa di essere univoco: “Da un lato l’amore si oppone agli interessi della civiltà, dall’altro la civiltà minaccia l’amore con grandi restrizioni”. [5]
Il conflitto sembra quindi essere inesauribile, nonostante i molteplici modi di fare legame: l’amore, il lavoro, la famiglia, ecc. c’è sempre in fondo un conflitto che è strutturale. Si tratta di modalità di fare legame che suppliscono ad una mancanza fondamentale che è stata formalizzata da Lacan come “assenza di rapporto sessuale”.

* Partecipante alle attività della SLP

[1] S. Freud, Il Disagio della Civiltà (1929), in “Opere”, vol.10, p. 558.
[2] Ibid, p. 580.
[3] Ibid, p. 582.
[4] Ibid, p. 585.
[5] Ibid, p. 592.

La civiltà sostiene il desiderio?
Antonietta Meo*

Il disagio della civiltà nasce dalla lotta continua fra l’interesse all’autoconservazione e le esigenze della libido, scrive Freud. [1]
A partire da ciò, l’autore fa riferimento alla nevrosi e, in particolare, ai sintomi che si producono, i quali riguardano i propri soddisfacimenti sostitutivi e non sono senza sofferenza, creando anche difficoltà con l’ambiente e con la società.
Freud si interroga sul comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso”, aprendo la questione
su due punti: 1) posso amare, ma l’ideale di me stesso, 2) posso non amare una persona perché mi è estranea e amandola compirei un’ingiustizia. L’amore di cui si tratta nell’enunciato del comandamento è un amore universale che punta a delle garanzie e dietro si nasconde il fatto che l’uomo non è una creatura mite, bisognosa d’amore, ma che il suo corredo pulsionale comprende una buona dose di aggressività, per cui l’altro è, in ultima istanza, solo un oggetto sessuale.
Freud parla di ostilità primaria e la società civilizzata è minacciata dalla disgregazione. La civiltà, sostiene fermamente Freud, nello sforzo di impedire le manifestazioni più brutali della violenza, non si esime dall’esercitare violenza sui criminali senza che la legge colga le manifestazioni più discrete dell’aggressività umana.
Ancora oggi si pensa che togliendo la proprietà privata, per esempio, oppure puntando all’uguaglianza, si possa eliminare l’aggressività. L’aggressività non è stata creata dalla proprietà, sottolinea Freud in questo capitolo, ma emerge a partire dall’infanzia del soggetto. L’uomo ha barattato un po’ della sua felicità per un po’ di sicurezza, andando verso l’inibizione pulsionale. Ma oltre all’inibizione pulsionale si dovrà affrontare la minaccia di una condizione che è “ la miseria psicologica delle masse”, avviandosi peraltro ad una reciproca identificazione dei membri; la rimozione non può che procedere di pari passo con la civiltà.
In tutto ciò si coglie l’attualità di Freud, in quanto si domanda dove sia finito il desiderio e come si articola nel suo rapporto costituente con la Legge. L’esperienza indistruttibile del desiderio nell’epoca attuale è difficile da attuarsi perché la Civiltà chiede l’immediatezza del godimento e sappiamo che senza l’esperienza del limite, della castrazione, non si dà esperienza del desiderio che appunto necessita dell’alleanza con la Legge. Oggi invece si raggira la Legge, si cercano le scorciatoie.
Lacan dice che non c’è desiderio senza sostegno simbolico della legge,[2] da qui la necessità di
pensare insieme e non in una cieca opposizione, desiderio e Legge, pensare l’alleanza che li costituisce come il retro e il verso di un unico foglio. Il soggetto freudiano è diviso tra il programma normativo del principio di realtà e quello del principio di piacere.
Una mia interrogazione è: ma oggi, la civiltà aiuta e sostiene la sublimazione? Oggi forse c’è una falsa liberazione della pulsione a partire da un godimento immediato che la civiltà oggi promette, ma che sembrerebbe porti a spegnere quel movimento di desiderio. Il soggetto oggi deve essere solo adeguato e conformato, ridotto dal potere delle merci a essere merce tra le altre.
La sublimazione offre alla pulsione una soddisfazione diversa rispetto a quella offerta dalla rimozione.
La sublimazione è distinta dall’economia di sostituzione in cui solitamente si soddisfa la pulsione in quanto rimossa.

* Partecipante alle attività della SLP

[1] S. Freud, Il disagio della civiltà (1929), in ”Opere”, Bollati Boringhieri, Torino 1978, vol. 10.

[2] J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi (1959-60), Einaudi, Torino 1994.


Eredità e mutamenti
Cinzia Sobrero*

Colpisce il modo in cui questo testo, fortemente legato e connesso al tempo in cui è stato scritto, non solo rappresenti, già dai primi capitoli, un’analisi precisa dell’origine della civiltà, degli influssi che l’hanno promossa e dei bisogni a cui ha risposto, ma che sia anche fortemente proiettato in un dopo che riguarda il nostro tempo in modo diretto.
Freud considera la civiltà europea occidentale del suo tempo come giunta al suo apice, riconoscendo forse l’inizio di un cambiamento radicale, sia nei modi del legame all’interno della
civiltà stessa, sia nella condizione soggettiva e particolare dell’essere umano.
Nel corso del secondo capitolo, egli mette bene in rilievo i tre rimedi principali, sorta di palliativi, che l’uomo avrebbe trovato per avere a che fare con l’infelicità, con il fatto che il principio di piacere ha un programma preciso, ma che è in costante conflitto non solo con il mondo esterno, ma anche con aspetti del mondo interno appartenenti al soggetto stesso.
Egli riconosce:
- Diversivi potenti, annoverando tra essi l’attività scientifica.
- Soddisfacimenti sostitutivi come l’arte e la bellezza.
- Sostanze inebrianti, e le conseguenti intossicazioni che puntano a rendere insensibili al dolore.
- L’amore, quindi, il far legame.
- La fuga nella malattia nevrotica, con i suoi sintomi.
In modo differente, ognuno di essi svolge una funzione per il soggetto. Alcuni, nel versante di una sublimazione delle pulsioni, ottenendo piacere dal lavoro psichico ed intellettuale; altri,
in quanto difesa dalla misera condizione umana.
Penso possa essere interessante, rispetto in particolare ad alcuni di questi rimedi, interrogarsi su quali siano le condizioni che permettono, all’interno di una civiltà, di rappresentare una risorsa soggettiva, per l’appunto un rimedio, piuttosto che rimandare invece ad un isolamento, ad un godimento autistico, tanto comune nella civiltà contemporanea.
Per quanto riguarda per esempio il ricorrere all’utilizzo di sostanze psicotrope, mi sembra che Freud indichi già qualcosa di prezioso, scrivendo che “gli effetti prodotti dagli inebrianti nella lotta per conquistare la felicità e per difendersi dalla miseria vengono considerati talmente benefici che gli individui e i popoli hanno loro riservato un posto preciso nella loro economia libidica”. Designando questo “posto preciso” già si delinea qualcosa di un discorso sociale, con i
suoi limiti e le sue regole, che può fungere da riferimento per il soggetto.
Allo stesso modo, mi sembra importante il riferimento che Freud fa al progresso tecnico, evoluzione dell’attività scientifica: già in quel tempo egli sostiene come esso sia privo di valore per l’economia della felicità dell’uomo, riconducendolo a quello che chiama “modello del godimento a buon mercato”.
Per finire, un altro punto che vorrei sottolineare e che ho trovato molto interessante è quello della conservazione del passato: Freud ci porta come esempio la città eterna, Roma, per pronunciarsi in seguito sul funzionamento della vita psichica, nella quale, dice, “il passato può essere conservato e non necessariamente va distrutto”, rendendo la conservazione una regola piuttosto che una sorprendente eccezione.
La funzione che riveste la memoria, la storicizzazione e anche qualcosa di un’eredità, che viene trasmessa di generazione in generazione mi sembra cruciale per definire ed analizzare una qualsiasi forma di civiltà: mi chiedo che forme possa avere assunto tale funzione nel nostro tempo; cosa permette al soggetto contemporaneo di avere ancora una storia da raccontare e all’interno della quale reperirsi?

* Partecipante alle attività della SLP
L'io non è padrone in casa propria
Stefano Avedano*
Ciò che Freud pone come introduzione a “Il disagio della civiltà” è una precisazione teorica su come la psicoanalisi intenda la nozione di Io, a partire dalla suggestione che egli riceve dal poeta Romain Rolland sul sentimento oceanico. Scrive Freud: “Si tratta di un sentimento di indissolubile legame, di stretta appartenenza al mondo esterno nel suo insieme”.[1]
L’illusione sulla quale l’individuo fonda la sua identità è quella che si fonda sull’essere in quanto unitario, autonomo e contrapposto a ciò che intendiamo comunemente come realtà esterna. Freud in realtà sostiene come l’Io conti al suo interno un “nucleo” che gli è estraneo; nucleo che si riverbera sulla realtà esterna dandole una forma squisitamente singolare e a misura di
quell’individuo.

INTERNO – ES – SIMBOLICO (S) // ESTERNO – OGGETTO – REALE (a)

La psicopatologia della “vita quotidiana” ci offrirebbe molti esempi di come non si possa sostenere la netta demarcazione fra realtà interna e realtà esterna “[…] ci sono casi in cui parti del proprio corpo, perfino porzioni della propria vita psichica, percezioni, pensieri, sentimenti, appaiono come estranei e non appartenenti all’Io”;[2]
per riprendere una nota formulazione di Lacan, ciò che è stato precluso, ossia non simbolizzato, ritorna nel reale, “ci sono altri casi in cui al mondo esterno viene attribuito ciò che manifestamente ha avuto origine nell’Io e che da esso dovrebbe essere riconosciuto”,[3]
il sintomo e il fantasma nevrotico in questo caso.
Lacan, durante il corso del suo insegnamento, prenderà a prestito dalla topologia
alcune figure che possono fornire una rappresentazione utile a cogliere il rapporto fra interno ed esterno, fra la cosiddetta realtà interna e la realtà esterna: il soggetto che si ri-trova nel procedere lungo un percorso prestabilito, si sorprende improvvisamente in un “luogo” diverso da quello in cui pensava di essere, poiché fa esperienza di una continuità topologica fra interno ed esterno.
L’oggetto prenderà posto, a seguito dell’ingresso nell’universo simbolico, come “esterno”
al soggetto, come qualcosa che immaginariamente è collocato “fuori di sé”.
È attraverso l’instaurazione del principio di piacere che, oltre a permettere al
soggetto di distinguere tra piacere e dispiacere, si riproduce una demarcazione fra un dentro e un fuori.
L’inconscio storico, il rimosso, è ciò che si può ri-costruire attraverso un lavoro attivo di elaborazione, a partire da quel taglio simbolico che consente di modificare per un istante il
proprio punto di vista.

* Partecipante alle attività della SLP
[2] Ibid, p. 559.
[3] Ibid.

martedì 15 maggio 2012

Può esistere una società senza follia?

L’argomento di questa serata mi ha posto di fronte a diversi interrogativi: di quale follia stiamo parlando? La follia della psicopatologia della vita quotidiana? La follia criminale? La follia femminile? La follia amorosa? O ancora la follia quantitativa dei sistemi di valutazione
psichiatrica?
Un fatto di cronaca, accaduto mentre preparavo questo intervento, è stato l’occasione per una riflessione che parte dalla cosiddetta follia omicida per spaziare nelle pieghe della follia che riguarda ciascuno di noi.
Nel pomeriggio dell’11 Marzo scorso un ragazzo di 24 anni, si arma di una pistola, si mette un casco nero, sale su uno scooter che ha rubato. Ha un appuntamento con un uomo, con il quale
ha forse finto di essere un potenziale acquirente della sua moto. Alle ore 16 nel parcheggio di una palestra di Tolosa, il ragazzo incontra l’uomo e gli spara a bruciapelo, colpendolo con numerosi proiettili, poi pronuncia queste parole: «tu uccidi i miei fratelli e io ti uccido». L’uomo è un militare francese. Il ragazzo filma tutta la scena con una telecamera fissata sul torace. E’ l’inizio di una serie di omicidi. Quattro giorni dopo, il 15 Marzo, due soldati di 28 e di 25 anni, vengono uccisi dallo stesso ragazzo con lo scooter, che ripartirà gridando «Allah Akbar!» (Allah è grande!)
Il lunedì seguente, il 19 marzo, il ragazzo dello scooter si ferma davanti al portone della scuola ebraica di Tolosa e spara a un professore di 30 anni e ai suoi due figli, Arieh, di 6 anni et Gabriel di 3 anni. Tutti e tre muoiono sotto i colpi. Poi il ragazzo entra nel cortile della scuola, afferra una bambina per i capelli, e la uccide sparandole in testa. Si tratta della figlia del direttore della scuola. Dopo aver gravemente ferito un altro studente di 17 anni, il ragazzo recupera il suo scooter e riparte. Il nome dell’omicida è Mohamed Merah.
La polizia lo ritrova braccato nel suo appartamento dove verrà ucciso dopo un assedio di 32 ore.
Questi fatti hanno sconvolto la Francia un mese e mezzo fa. Follia criminale ? Fanatismo religioso ? Fondamentalismo islamico ?
Gli studiosi della personalità si sono scatenati sull’evento in cerca di un perché, di un senso.
Ma soltanto lui, soltanto Mohamed Merah, avrebbe forse potuto dirci qualcosa su quello che lo ha spinto a questa follia omicida. O forse neppure lui non avrebbe potuto dire nulla sull’irruzione di un « reale » che lo ha travolto.
Il passaggio all’atto è sempre l’espressione di un reale che irrompe là dove il linguaggio fallisce nel suo lavoro di simbolizzazione. Per Mohamed non c’è stato, questo lavoro di simbolizzazione, né dopo la strage, né evidentemente neppure prima, durante la sua breve vita.
Un commentatore, in uno dei vari blog di scambio su internet, ha detto qualcosa di interessante a questo proposito : non è la società, non è la violenza mediatica, non sono i giochi video o i films pieni di aggressività, le cause che spiegano l’orrore di Tolosa.... forse è mancata a questo adolescente l’occasione di un « incontro » autentico con qualcuno che abbia potuto accogliere, ascoltare e permettergli di elaborare e arginare la sua violenza interna; noi possiamo aggiungere che non c’è stato (per lui) un incontro con la possibilità di soggettivare il proprio kakon[1], il proprio orrore, e nominare ciò che di inassumibile comporta il reale. La diagnosi che gli fu fatta nell’infanzia, per rendere conto degli insuccessi scolastici e della sua instabilità, diagnosi di « bambino affetto da disturbi del comportamento »[2] dimostra solo il non coinvolgimento, la non implicazione, di una psichiatria pigra e frettolosa. Più tardi per Mohamed si sono susseguiti : l’abbandono scolastico, lo scivolamento nella piccola delinquenza, il carcere, il tentativo fallito di entrare nella legione straniera, fino all’abbraccio di un fondamentalismo islamico a cui identificarsi per dare una risposta e una direzione all’insopportabile che lo abitava.
Quanto odio c’era dentro alla follia omicida di Mohamend Merah? E che cos’è l’odio? In un articolo intitolato « Pulsioni e loro destini » [3] Freud, ci insegna che l’odio è anteriore all’amore, l’odio è più antico dell’amore in quanto esso risale alle pulsioni di conservazioni dell’io, ossia è il modo di espellere dal corpo tutto ciò che è considerato o vissuto dall’io come malvagio, come un attacco. [4]
L’odio è un modo di esteriorizzare il male che è dentro, e che non può essere assimilato. Dunque l’odio è correlato al concetto di pulsione, un concetto che Freud ha separato dall’istinto e ha posto al limite tra lo psichico e l’organico.
Questa è l’elaborazione freudiana dell’odio del 1915, ma è nel 1920, cinque anni dopo, che Freud compie un passo veramente straordinario, innovativo, nel suo percorso di ricerca, e lo fa con l’introduzione e la scoperta della pulsione di morte. La questione della pulsione di morte
introdotta con l’articolo « Al di là del principio del piacere » si rivelerà subito essere uno scoglio scomodo, quasi scandaloso per ogni teoria psicologica dell’adattamento e del benessere
armonico. Una questione talmente imbarazzante che molti post-freudiani hanno cercato di svicolarla o di ammaestrarla, pur di non prenderla veramente in considerazione. Forse solo
Melanie Klein per un verso e Lacan per un altro, hanno avuto il coraggio di non indietreggiare di fronte alla questione della pulsione di morte. Che cosa c’è di così inammissibile in questa questione ? Freud aveva scoperto che l’aggressività non si trovava solo agita da un soggetto verso un altro soggetto, ma che essa esisteva all’interno dello stesso soggetto in termini di autodistruzione. C’è qualcosa nell’inconscio che si manifesta come godimento dell’autodistruzione, un godimento in eccesso, un più-di-godere.
In altre parole, il soggetto non vuole sempre il proprio benessere. Può succedere che agisca contro la sua stessa esistenza, contro la sua vita.
Gli atti di follia omicida come quelli di Mohamed finiscono spesso con un suicidio o con il farsi bersaglio di colpi mortali (« suicide by cops » : suicidio attraverso la polizia interposta,
un’altra forma di suicidio). E’ stato detto che l’omicida norvegese, Anders Behring Breivik, che ha ucciso l’anno scorso 77 persone, è una rara eccezione, poiché è rimasto in vita ( e sappiamo che proprio in questo periodo gli psichiatri e i periti che lo esaminano non riescono a mettersi d’accordo sulla diagnosi da pronunciare a suo riguardo). Quale follia può infatti spingere degli individui a dei crimini tanto efferati quanto illogici ? Sovente si tratta di persone che non dimostravano prima dell’evento tragico i segni classici della follia: il delirio, l’esagitazione incontrollata. Per esempio, nonostante il suo percorso difficile, Mohamed Merah era descritto nella sua vita quotidiana come gentile e disponibile, senza segni esteriori di follia , «lo avresti invitato volentieri a prendere il caffé », è stato detto di lui.
La follia, non è un concetto semplice. Si pensa sovente al folle come a colui che ha perso ogni libertà di pensare e di agire.
Era ciò che teorizzava lo psichiatra Henry Ey fondatore della corrente organo-dinamista. Secondo Henry Ey la libertà è una prerogativa normale dell’uomo che è impedita al malato mentale.
Lacan ha sovvertito questa logica, dicendo che il vero uomo libero è il « folle », perché non assoggettato all’ordine simbolico, quell’ordine che per lo psicotico è rigettato, forcluso.
Ma non dobbiamo pensare che Lacan facesse un elogio della follia, sul modello di una certa antipsichiatria. Al contrario, egli mette in evidenza che il « folle » patisce della sua libertà, perché si tratta di una libertà paradossale, che compromette il suo rapporto all’Altro e al desiderio. Lacan dirà che si tratta per la follia, della « libertà negativa di una parola che ha rinunciato a farsi conoscere »[5]. Quindi la follia non risiede in un Io incerto, smarrito, che dubita di se stesso, ma piuttosto in un Io che si crede davvero un Io, per esempio - come ci dice Lacan - in un re che si crede veramente un re, e che come tale è folle come un uomo comune che dice di essere re. E fa l’esempio di Napoleone che non si è mai creduto Napoleone se non alla fine, a Sant’Elena, quando Napoleone non lo era più[6].
L’interesse per la Follia ha marcato l’inizio del percorso di Lacan, che ha inaugurato la sua ricerca clinica con lo studio di un caso di psicosi paranoide, il caso Aimé, che fu il tema della sua tesi di
psichiatria. Quando discusse la sua tesi, fu redarguito dalla commissione per la sua supposta stravaganza. Lui stesso racconta l’aneddoto :
« Quando discutevo della mia tesi su «La psicosi paranoica e i suoi rapporti con la personalità», uno dei miei maestri mi pregò di formulare ciò che insomma mi ero proposto: « Insomma - cominciai - non possiamo dimenticare come la follia sia un fenomeno del pensiero... » .
Non dico che così io avessi indicato a sufficienza il mio intento : il gesto che m’interruppe aveva la fermezza di un richiamo al pudore : «Va bé! e poi? - significava. Passiamo alle cose serie. Vuole forse prenderci per il naso? Non disonoriamo quest’ora solenne. » Ciononostante fui accolto come dottore con gli incoraggiamenti che conviene accordare agli spiriti estrosi »[7]
L’estrosità del giovane Lacan era quella di considerare la follia come un fenomeno di pensiero. Non un deficit, una malattia, una lesione organica o funzionale, ma un fenomeno di pensiero, avente una causalità psichica e non organica .
Ed è in questo fenomeno di pensiero che Lacan inserisce tutta la dialettica dell’identificazione immaginaria, una dialettica in cui la questione dell’imago prende un’importanza fondamentale sia nell’analisi del gesto del folle, sia nella costituzione di ogni soggettività umana.
La radice dell’aggressività si iscrive all’interno di ogni soggetto e trova il suo paradigma (almeno nel primo tempo dell’insegnamento di Lacan) nel rapporto del soggetto con la propria immagine,
ossia nella rivalità (immaginaria) prodotta dalla propria immagine speculare presa come oggetto, come altro. Lacan riprende l’aforisma di Arthur Rimbaud : «l’io è un altro»[8]
per sintetizzare l’incidenza dell’immagine speculare nell’emergenza stessa del soggetto. Nello stadio dello specchio, il bambino che fa l’esperienza del riconoscimento di sé nell’immagine riflessa, ha una duplice reazione : la giubilazione di fronte all’unità e alla completezza che quell’immagine gli rimanda, ma anche una immediata rivalità carica di antagonismo ostile, che marcherà le sue future modalità relazionali. Marcherà per esempio il dramma della gelosia del bambino nei confronti di un fratello di età similare.
Il paradosso della costituzione dell’io è che da una parte «l’individuo umano si fissa ad una immagine che l’aliena a se stesso »[9], e dall’altra è proprio da questo rapporto «erotico» che trae l’energia e la forma che permette il prodursi di « quell’organizzazione passionale che egli
chiamerà il suo io (moi)»[10] Tuttavia se il piccolo d’uomo non attraversa questa fase, di identificazione alienante, non si costituisce in quanto soggetto. Inoltre, se in questo momento costitutivo e fondante dell’io, non interviene una funzione terza che permette di autentificare l’identificazione del soggetto con l’immagine speculare, la costituzione stessa dell’io è a rischio. Questa funzione terza, autentificatrice, è la presenza del desiderio dell’Altro, è per esempio la presenza dell’adulto che sorregge il bambino e che lo conferma nel suo riconoscimento, una presenza che permette di inaugurare la «dialettica che lega l’io a situazioni socialmente elaborate»[11]. Il trauma di una identificazione disastrosa può essere molto precoce e non occorre per questo che sia accaduto qualche cosa di eclatante, non occorrono abusi sessuali, botte, crudeltà, abbandoni; basta il non-desiderio dell’Altro per squalificare ogni solidità identificatoria e compromettere l’iscrizione del soggetto nel simbolico, vale a dire nella Legge
e nel sociale.
L’io, fin dall’origine, è dunque segnato da una sorta di aggressività che sgorga direttamente dall’identificazione del soggetto infans all’immagine speculare. Questo momento fondamentalmente alienante in cui si costituisce l’essere dell’uomo, può far precipitare il soggetto in una negazione mortale : «Si confondono così - dice Lacan - i due momenti in cui il soggetto si nega da sé e attacca l’altro »[12], come accade nei deliri paranoici.
Questo significa, che il conflitto è dentro al soggetto, nel senso, dice ancora Lacan che: « ogni partner confonde la patria dell’altro con la propria e s’identifica con lui»[13], così « l’aggressività (...) è sempre allo stesso tempo subita e agita, ovvero sottesa da un’identificazione con l’altro, oggetto della violenza» [14]. Allora come nella psicosi paranoide del caso Aimé il soggetto colpendo l’altro, colpisce sé stesso. E’ questa la lezione che dobbiamo tener presente anche nei crimini di Mohamed Merah, il pluriomicida di Tolosa. Chi voleva colpire Mohamed nella figura dei tre militari dell’esercito francese e in quella dei bambini della scuola ebraica? Che cosa ha scatenato la sua follia? Chi era il vero bersaglio dei suoi gesti folli ?
Quale Nome-del-Padre, forcluso, cioè mai giunto al posto dell’Altro, è stato chiamato quel giorno, in opposizione al soggetto? Domande che resteranno probabilmente senza risposta, ci
resta solo l’orrore di un passaggio all’atto senza ritorno. Domande che però ci mettono su una via di riflessione precisa : la via del reale e della sua incidenza in termini di godimento mortifero.
Il reale della psicanalisi è diverso dal reale della scienza, perché riguarda il godimento, riguarda proprio ciò che è escluso dalla scienza, in quanto impossibile a dire, a quantificare, a trasformare in cifre e in statistiche. Il reale evidenziato da Lacan è l’impossibile che emerge nell’esperienza
dell’angoscia, l’affetto che non mente.
Se il «reale» della psicoanalisi è diverso dal «reale» della scienza, anche «la follia» non ha per la psicoanalisi lo stesso significato che ha per la scienza medica o per quella criminologica o per il
senso comune. «Tutti delirano » diceva Lacan. Che cosa voleva dire? Voleva dire che l’uomo, in quanto essere parlante, ha sempre a che fare con la follia. «Il fenomeno della follia - ci dice Lacan - non è separabile dal problema della significazione dell’essere in generale, cioè del linguaggio per l’uomo»[15] e altrove dirà che «l’essere dell’uomo non solo non può essere compreso senza follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo, se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà»[16] . Questo significa allora che tutti gli uomini sono folli? In un certo senso sì, proprio per la relazione che ciascuno ha con il linguaggio. Nel senso che ogni uomo è alienato ai significanti ai quali si identifica. Ed è proprio nell’identificazione che per Lacan risiede la
causa psichica della follia. Per questo la follia non sarà mai totalmente sradicabile dalla società.
Però non si tratta per tutti della stessa folia. Gli uomini sono folli in maniera diversa. La psicosi per esempio è una forma particolare di follia che non si può generalizzare. La psicosi nelle sue forme di paranoia, schizofrenia, melancolia, ha una struttura diversa dalla follia della nevrosi, quella dell’isteria per esempio, che ha aperto a Freud la strada della sua ricerca e della sua invenzione. Per questo Lacan non è in contraddizione con l’enunciato « tout
le monde délire »[17] quando dice: «non diventa pazzo chi lo vuole»[18]. La scelta della struttura, non è infatti una scelta cosciente, essa resta, in ultima analisi, «una decisione insondabile dell’essere»[19], secondo la definizione lacaniana. Quello che sappiamo, quello che la psicanalisi ci ha chiarito, è che la condizione del soggetto « dipende da
quello che accade nell’Altro »[20] . Che cosa significa? Significa che il soggetto non è solo, non è una monade, e che non può essere studiato in modo isolato come pretende il discorso della scienza, che vorrebbe farne un oggetto a sé, da mettere sotto il microscopio, o sotto tutti i sofisticati strumenti di indagine e di immagineria, quali le investigazioni di rilevanza magnetica
(IRM). Un soggetto non è isolato, non si sviluppa secondo un programma interno, che funzionerebbe seguendo un progetto già prestabilito, che sarebbe identico in qualsiasi situazione o luogo della terra. Un soggetto è effetto del mondo simbolico in cui è immerso, in cui si trova a nascere e a crescere ; e questo mondo simbolico esiste già prima della sua nascita, lo precede. E’ fatto di linguaggio, di leggi, di tradizioni, di cultura.... E questo vale anche per il soggetto psicotico, il quale non è l’effetto di un deficit, non è assenza di ogni logica. Nel suo discorso c’è una logica, una logica particolare che la psicanalisi, a partire dal caso Schreber in avanti, ha
cercato di elucidare interrogandosi sul posto che occupa l’Altro per questo soggetto. La domanda è: a quale Altro ha a che fare quel particolare soggetto psicotico? La pratica clinica ci dimostra
che l’Altro può essere il luogo di un godimento mostruoso da cui il soggetto si sente perseguitato e tormentato. Ricordiamo che godimento in termini lacaniani non è il piacere, ma è piuttosto un dispiacere di cui il soggetto non può fare a meno.
Il clinico che si trova di fronte a uno psicotico, deve tener conto di questa relazione del soggetto con un Grande Altro feroce e deve quindi evitare di scivolare in questa posizione e di diventare lui stesso un persecutore. Nello studio privato, come in istituzione si tratta di favorire un incontro autentico di ascolto, di accoglienza, senza stritolare il soggetto con la presunzione di un sapere (un sapere sul soggetto, che equivale per lo psicotico a godere di lui). Possiamo fare l’ipotesi che il soggetto psicotico è un soggetto che non ha vissuto l’incontro con un Altro che abbia accolto il suo grido e che lo abbia umanizzato, trasformato in significante. Allora il soggetto psicotico deve costruirsi da solo ciò che non trova nell’Altro. Per lui il discorso del Padrone (in senso lacaniano) non fa barriera, non costituisce il limite a cui obbedire, non
introduce la legge simbolica da rispettare, trasgredire, o criticare, come accade nelle differenti posizioni del nevrotico.
Per questo la psicosi oggi ci interpella e ci è di insegnamento. Nella nostra epoca infatti,
l’ordine del simbolico non è più lo stesso di quello che era per le generazioni precedenti, e la legge, l’autorità tradizionale, non funzionano più da parapetto (in francese: garde-fou = ciò che trattiene il folle) Con l’avanzata della scienza, della tecnologia il reale è entrato sempre di più nella realtà. Il discorso della scienza e il discorso del Capitalismo promettono un più-di-godere illimitato al soggetto contemporaneo. Ma si tratta di un più-di-godere completamente sregolato che lascia il soggetto scombussolato, (senza bussola). Il fantasma stesso ne
risulta scompigliato. Il fantasma è ciò che normalmente permette al più-di-godere di restare a una buona distanza, a una distanza di sicurezza dal soggetto. Jacques Alain Miller diceva che con la destituzione del Discorso del Padrone, il fantasma stesso entra nel reale; fantasma e reale si confondono[21].
Il disagio della civiltà descritto da Freud non è più lo stesso. La nuova impasse della civiltà è data da un imperativo che spinge a godere sempre di più e ininterrottamente. L’obbligo di godere (nelle varie forme di: avere gli oggetti, essere perfetti, eliminare ogni frustrazione, ogni
tristezza, ogni minima difficoltà) ritorna come un boomerang sul soggetto, schiacciandolo sotto il peso del reale che è intrinseco al godimento. La supremazia del reale sul simbolico vorrebbe il rigetto di tutto ciò che va sotto il registro della castrazione,[22] ma per la psicanalisi è proprio la castrazione che permette di normalizzare il soggetto, nel senso che gli permette di desiderare. Allora la questione del declino dell’ordine simbolico e dell’egemonia del reale ci interessa nel nostro approccio alla follia.
Se l’ordine del simbolico cambia, cambiano anche i sembianti, poiché l’ordine del simbolico altro non è che una certa disposizione dei sembianti.
Cambiando i sembianti cambiano i godimenti individuali, ma cambiano anche i godimenti feroci che per esempio il paranoico attribuisce all’Altro. L’aumento vertiginoso dell’esigenza di un-più-di-godere da parte del soggetto, si traduce sul versante paranoico con un più-di-godere illimitato proiettato nell’altro persecutore.
Se il simbolico e l’immaginario servivano per proteggere in qualche modo il soggetto dall’irruzione del reale, con il vacillare dei sembianti e con il declino del Nome de Padre, il soggetto è più esposto alla follia del reale, al non senso del reale.
Nella pratica clinica ci confrontiamo a nuovi sintomi, che comunque restano sempre « i segni di ciò che non va nel reale »[23], e in cui i soggetti si presentono come assoggettati a un godimento invasivo che fa di loro degli : Uno divisi, tanti Uno soli, non in relazione. E esposti a forme sempre più insistenti di dipendenze, di depressione, di solitudine.
La relazione su cui l’analisi si fonda è quella del transfert, che permette che dell’amore sia mobilizzato, grazie al desiderio dell’analista. L’amore del transfert offre un’alternativa al godimento autistico.
Gli effetti di nominazione che procedono dall’analisi permettono di spostare i punti di fissazione del godimento e di non indietreggiare di fronte al reale, di fronte a ciò che di folle c’è nell’essere
umano e di fronte al punto di orrore, di inumano che c’è in ciascuno di noi.
Jacques Alain Miller invitato dal giornale Le Point a commentare i crimini di Tolosa ha sottolineato come l’aumento degli omicidi di massa, che era un sintomo della società americana
frammentata in ragione della dimissione dello Stato, sia ora anche una realtà europea. Miller ha terminato il suo articolo con una frase che mi sembra condensi in forma precisa la problematica dell’odio, dell’aggressività e del nostro rapporto con la follia: «L’odio è la più intensa
delle passioni. Può succedere che l’odio aggraffi tutto l’universo mentale di un soggetto, supplendo così al buco beante della sua psicosi. L’amore se la prende con le apparenze, allorché l’odio è radicale: prende di mira l’essere. Quando questo odio passa all’atto su dei bambini, il teatro segreto della pulsione si svela come «teatro della crudeltà» (Antonin Artaud). E allora è «
lo spavento, l’orrore, il brivido sacro». Perché ciascuno di noi, benché tutto preso dalla compassione, è anche sollecitato nella sua parte irriducibile di inumanità, senza la quale non c’è umanità che tenga»[24].
Cinzia Crosali
cinziacrosali@gmail.com


[1] Lacan mostra che ciò che cercava di raggiungere il criminale nell’oggetto colpito non era altro che il kakon, il nodo del proprio essere, il suo godimento più intimo (Discorso sulla causalità psichica. in Scritti, p. 169).
[2] E chissà a quale deficit si saranno riferiti !? Forse a un DDAI: (deficit disattenzione con
iperattività) o più probabilmente a un DOP (disturbo oppositivo provocatorio), ma sicuramente nessuna di queste etichette rende conto della struttura soggettiva di questa persona .
[3] S. Freud, Triebe und Triebschicksale, in Metapsychologie, 1915, trad. it., Pulsioni e loro destini, in Metapsicologia, in C. L. Musatti (a cura di), Opere, Bollati Boringhieri, Torino 2008, vol. VIII.
[4] « (L’io) caccia fuori di sé ciò che nel suo stesso interno diventa occasione di dispiacere » p.31
“L’io odia, aborrisce, perseguita con l’intenzione di mandarli in rovina tutti gli oggetti che diventano per lui fonte di sensazioni spiacevoli, indipendentemente dal fatto che essi abbiano per lui il significato di una frustrazione del soddisfacimento sessuale o del soddisfacimento dei suoi bisogni di autoconservazione. Si può addirittura asserire che gli autentici archetipi della relazione di odio non traggono origine dalla vita sessuale ma dalla lotta dell’Io per la propria conservazione e affermazione” (Freud, Opere, cit. vol.VIII° 1915, pag.33).
[5]
Lacan J., « Fonction et champs de la parole et du langage » (1953), Ecrits, op cit. p. 279.
In italiano: Scritti, Einaudi, Vol.1, pag.273
[6] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, op. cit. , vol. p.165
[7] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, Einaudi, vol.1.p.156
[8] Lacan J. L’aggressività in psicoanalisi (1948) in Scritti pag.112
[9] Lacan J. L’aggressività in psicoanalisi (1948) in Scritti pag.107
[10] Lacan J. L’aggressività in psicoanalisi (1948) in Scritti pag.107
[11] Lacan J., Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, (1949) in Scritti, pag. 92
[12] Lacan J. L’aggressività in psicoanalisi (1948) in Scritti pag.108
[13] Lacan J. «Il complesso di intrusione » (1938) in «Complexes familiaux dans la formation de
l’individu» cit. p. 11
[14] Lacan J. «Il complesso di intrusione » (1938) in «Complexes familiaux dans la formation de
l’individu» cit. p. 12
[15] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica » (1946) in Scritti, Einaudi, vol. p.160 (Ecrits page 166)
[16] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, Einaudi, vol. p.170 (Ecrits page 176)
[17] « Comment faire pour enseigner ce qui ne s’enseigne pas ? Voilà ce dans quoi Freud a cheminé. Il a considéré que rien n’est que rêve, et que tout le monde (si l’on peut dire une pareille expression), tout le monde est fou, c’est-à-dire délirant. » Jacques Lacan, « Journal d’Ornicar ? »
publié dans Ornicar ? 17-18, 1979, p. 278.
[18] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, Einaudi, vol. p.170
[19] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, Einaudi, vol. p.171
[20] Lacan J. «Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi » in Scritti, op. cit. p. 545. (Ecrits, page 549)
[21] Miller J.A. 6. J.-A. Miller, « Le banquet des analystes », L’Orientation lacanienne, leçon du 4 avril 1990, inédit (Citato da Pierre-Skriabine: «La science,le sujet et la psichanalyse»)
[22] Lacan J. Sém. 19 « Ou pire...» (6.01.72) «Ce qui distingue le discours du capitalisme est ceci : la Verwerfung, le rejet, le rejet en dehors de tous les champs du symbolique avec ce que j'ai
déjà dit que ça a comme conséquence. Le rejet de quoi ? De la castration.»
[23] Lacan J., « Le Séminaire », livre XXII, « R.S.I. », lezione del 10 dicembre 1974, in Ornicar
?, n. 2
[24] Miller Jacques Alain article «Le théâtre secret de la pulsion» dans le «Le Point» page 46 22.03.2012

lunedì 7 maggio 2012

…Neppure nel giardino del Re

“Volli cercare il male

che tarla il mondo, la piccola stortura

d’una leva che arresta

l’ordigno universale; e tutti vidi

gli eventi del minuto

come pronti a disgiungersi in un crollo”

Eugenio Montale, Ossi di seppia (1920-1927)



“La nevrosi apparve come l’esito di una lotta fra gli interessi dell’autopreservazione e le richieste della libido, una lotta in cui l’io aveva riportato la vittoria, ma a prezzo di gravi patimenti e rinunzie”.[1]

Sigmund Freud, Il disagio della civiltà (1930)


Fino a qualche decennio fa se un giovane avesse formulato una domanda a partire da “Voglio..”, avrebbe ricevuto in risposta dall’adulto un chiarissimo, “Non se ne parla” e nei casi migliori si sarebbe sentito dire che quanto stava chiedendo proprio non era possibile a partire dal fatto che “l’erba voglio non cresce neppure nel giardino del Re”.[2] Ogni volta che un puerile irruente desiderio si mostrava all’Altro attraverso un deciso “Voglio!” non c’era scampo per il richiedente “in erba” ottenere qualcosa dall’adulto in modo imperativo era impresa valorosa e cambiare interlocutore spesso non portava risultati più soddisfacenti; il giardino del Re era il solo luogo, autorevole e autoritario insieme, per indicare che qualcosa di un irrefrenabile desiderio doveva assolutamente confrontarsi con un reale limitante e con l’Altro che decide. Un detto questo, del giardino del Re, alla base del sistema educativo delle pulsioni, per anni se non addirittura per secoli. Il meccanismo che lo sottende, promuovendolo ad assioma, è piuttosto semplice: più un qualcosa è proibito, più il desiderio aumenta ed il soggetto inizia a lavorare alla costruzione di una “personalità contro”, la stessa che anni dopo, in piena crisi adolescenziale, porta a dire NO all’autorità paterna. Chi l’avrebbe detto mai che quel giardino del Re sarebbe diventato rappresentativo di un limite utile e necessario all’autodeterminismo e individuazione di più generazioni? probabilmente le ultime generazioni ancora libere di desiderare!

Quali gli effetti di una società che non mette più limiti?

Nel disagio della civiltà Freud scrive che: “I bambini non ascoltano volentieri quando si parla della tendenza innata dell’uomo al “male”, all’aggressione, alla distruzione e perciò anche alla crudeltà”.[3] Tutte le fiabe camuffano il male con personaggi e creature terribili e crudeli destinate ad essere sconfitte in nome del “vissero felici e contenti”. L’uomo nero purtroppo non basta a scagionare tutti gli altri uomini, sedicenti buoni, di cui credono di far parte, dalle azioni malvagie. In una prospettiva storico sociale possiamo ricordare come tentativi di questo genere, ossia dividere tra buoni e cattivi, non siano serviti a togliere all’uomo il proprio mal-essere, inteso sia come male di vivere (disagio, stati depressivi) sia come malvagità del proprio essere: è accaduto dunque, in una prospettiva storica, che l’ebreo fu elevato al male che provoca la decadenza e la rivalità sociale; per cui fu dettato, ad un certo punto, che fosse perseguitato e annientato per ristabilire l’armonia perduta per sempre.

Ed è proprio questo il punto: la perdita. Il disagio sta nella perdita. L’uomo, da sempre, ricerca le cause di questa perdita, desidera ritrovare ciò che ha perduto. Oggi ciò che è perduto non è tanto l’oggetto quanto la causa del desiderio che è l’aspetto per cui desideriamo l’oggetto. Il depresso è dunque un soggetto che possiede l’oggetto, ma ha smarrito il proprio desiderio nei suoi confronti, perché la causa che glielo faceva desiderare è venuta meno e ha perso la sua efficacia. Slavoj Zizek a questo proposito scrive che: “Una persona che, per tutta la vita, sia stata abituata a vivere in una certa città e sia infine costretta a trasferirsi altrove è senz’altro rattristata dal pensiero di essere improvvisamente gettata in un nuovo ambiente; ma cos’è che la rende triste? Non è la prospettiva di abbandonare il luogo che per anni è stato la sua casa, ma la ben più sottile paura di perdere il suo attaccamento a quel posto”.[4] Perdere il desiderio per quella che è stata la sua casa per molto tempo. Alla luce di quanto detto, il disagio contemporaneo è forse dovuto alla consapevolezza di non poter più trovare in alcun luogo dell’Altro un limite che svolga, allo stesso tempo la funzione di generatore del desiderio, lasciandoci così contemporaneamente preda degli oggetti ma impossibilitati a desiderare in alcun luogo …neppure nel giardino del Re.

Raffaella Borio

 


[1] S. Freud, Il disagio della civiltà (1924 -1929), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1975, vol. 10, p. 605.
[2] “L’erba voglio non cresce neppure nel giardino del Re”. Questo simpatico detto proverbiale deve avere avuto origine al momento in cui i Re europei - a seguito della Rivoluzione Francese - hanno dovuto concedere alle rispettive popolazioni, uno statuto, una costituzione scritta che li privava del potere assoluto (“legibus soluti”) e metteva un limite al loro potere (nascita del c.d. “stato di diritto”). (In Italia ciò accadeva con lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia nel 1848). www.corriere.it/Rubriche.
[3]S. Freud, Il disagio della civiltà (1924 -1929), in Opere, vol. 10, op. Cit., p. 607.
[4] S.Zizek, Leggere Lacan, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.86.
La Segreteria di Torino della SLP in preparazione all'VIII Congresso dell'AMP:
L'ordine simbolico nel XXI secolo. Non è più quel che era. Quali conseguenze per la cura?
durante l'anno 2011-2012, ha organizzato quattro serate di lettura sul tema:
"Qual è la logica del discorso contemporaneo?"

I testi di riferimento sono stati
Il disagio della civiltà di S. Freud (Bollati Boringhieri)
Del discorso psicoanalitico di J. Lacan, in Lacan in Italia (La Salamandra)

Dal vivace dibattito che ne è scaturito pubblichiamo alcune riflessioni.

giovedì 26 aprile 2012

mercoledì 21 marzo 2012


“IL SINTOMO TRA PAROLA E SCRITTURA”
Jean-Louis Gault
(Lezione magistrale al Goethe-Institut di Torino del 2 marzo 2012)

1. La cura analitica è un’esperienza di parola, nella parola e dalla parola. In un’analisi, un soggetto, l’analizzante, parla, e tocca all’analista, a cui si rivolge, prendere la parola per rispondergli. Questa interlocuzione è profondamente asimmetrica, visto che, per la maggior parte del tempo, è l’analizzante a parlare, mentre gli interventi dell’analista sono rari e spesso brevi. Questi interventi s’inscrivono in questo scambio così particolare, secondo una modalità in se stessa singolare. Prendono la forma d’interpretazioni di quello che è stato detto dall’analizzante.
Questa esperienza realizza un dialogo, certo atipico, che da lì si estende nella sua interezza nel campo del linguaggio, dove si trova sollecitata la funzione della parola.
Il sintomo di cui viene a lamentarsi il paziente, rivolgendosi all’analista, prende la via della parola. È su questa base che il sintomo, così necessariamente articolato nel dispositivo di parola dell’analisi, è stato concepito da Freud come un messaggio. Il sintomo ha una significazione, vuole dire qualcosa. Lacan ha dato la forma linguistica di questo sintomo parlato, identificandolo con l’effetto di senso poetico ottenuto con la metafora. Il sintomo è una metafora.
2. Il sintomo non si potrebbe ridurre a una faccenda di parola. Nella sua fabbricazione, implica sempre la partecipazione del corpo di colui che ne soffre. È precisamente nel modo di un disturbo del corpo che il paziente se ne lamenta. Il sintomo è sempre, diremmo, body-made - se ci si permette questo scorcio in inglese, ricalcato sul vocabolario della produzione degli oggetti industriali. In francese, secondo una formula di pura provenienza lacaniana, del sintomo si può dire che è EN-CORPS, “In corpo”. È nel corpo, ed è fatto con il corpo. È per questa ragione che il sintomo è scrittura, nella misura in cui il corpo dà supporto materiale al sintomo, come la scrittura dà supporto materiale alla parola.
Sintomo __ Parola
Corpo __ Scrittura
Il sintomo è così qualificato come simbolo scritto sulla sabbia della carne.
3. La pratica dell’interpretazione analitica dipende da questa doppia appartenenza del sintomo alla parola e alla scrittura. L’interpretazione prende posto tra l’ascolto del senso del sintomo nella parola, e la lettura del sintomo come scrittura. Prima di tutto, si deve sottolineare questo: il sintomo con cui abbiamo a che fare nell’esperienza analitica non dipende in nessun modo dalle leggi che reggono il funzionamento dell’organismo umano. Quest’organismo appartiene a una realtà biologica, cioè in definitiva fisico-chimica. Esistono dei sintomi che appartengono a questa realtà, sono quelli di cui si occupa la medicina. La psicoanalisi non pretende affatto di dire qualcosa su questi sintomi. I sintomi della tubercolosi fanno parte di questa malattia, ben conosciuta dalla medicina. Questa malattia appartiene a una realtà fisica, dove il bacillo di Koch è implicato nelle lesioni causate negli organi malati. Solo l’intervento di un agente fisico, il farmaco antitubercolare, può curare quest’affezione. Far parlare il paziente dei suoi sintomi di tosse o di dispnea, quando è colpito da una tubercolosi polmonare, non è per niente una risposta adeguata a questi tipi di sintomi. Il sintomo della malattia tubercolare non è né un messaggio, né una scrittura. È così in tutti i sintomi delle malattie fisiche autenticamente identificate dalla medicina in quanto tali.
Accanto a questa realtà biologica dell’organismo, esiste un’altra realtà. L’organismo offre una base materiale a ciò che chiamiamo il corpo; ma il corpo non è riducibile a questo substrato fisico. Il corpo appartiene ad un altro ordine di realtà. Il corpo è il risultato degli effetti della struttura di linguaggio sull’organismo dell’essere parlante. Così un essere umano ha un corpo, e ne ha solo uno. Risulta, da questo effetto del linguaggio sul suo organismo, che il soggetto umano è suscettibile di soffrire di una categoria di sintomi che sono legati al fatto che questo soggetto subisce l’effetto nel suo organismo del campo del linguaggio, della funzione della parola, e aggiungeremo ormai, dell’istanza della scrittura. Questi sintomi sono quelli con cui si è confrontato Freud, e ha inventato un modo di dialogo appropriato per accoglierli e rispondergli. Questo dispositivo è quello della praxis analitica. Questi sintomi sono quelli con cui gli psicoanalisti hanno a che fare nella loro pratica quotidiana; sono i sintomi di ciò che chiamiamo generalmente le nevrosi, le psicosi e le perversioni. La medicina moderna e la scienza rifiutano di considerare l’esistenza di questa sorta di sintomi. La scienza ha la pretesa di ridurre ogni tipo di sintomi alla realtà fisica dell’organismo umano. Gli psicoanalisti sono impegnati in una battaglia per mantenere la specificità di questi sintomi che sono propri agli esseri parlanti. Fra questi sintomi, neppure uno s’incontra nello stato naturale dell’animale; mentre, le malattie fisiche, da cui dipendono i sintomi in medicina, hanno tutte i loro equivalenti in una o nell’altra specie animale.
Perché gli esseri parlanti hanno dei sintomi che attribuiamo al fatto che parlano? Lacan considerava che c’era sempre qualcosa che non andava nella vita di un essere umano, ed è giunto a dire che questi sintomi erano qualcosa che aiutava questi esseri a vivere.
Perché questa zoppia? La struttura del linguaggio introduce un disturbo, una faglia, uno strappo nella relazione del soggetto con il suo corpo. Dall’effetto del linguaggio, egli eredita un corpo che lo imbarazza senza sapere cosa fare con questo corpo, senza sapere a cosa possono servire le differenti parti del suo corpo. Deve quindi imparare come servirsi di questo corpo, e stabilire una relazione con le sue diverse parti. È una funzione dell’educazione quella di insegnare al soggetto gli usi del proprio corpo. Il soggetto deve acquistare questo sapere sul corpo, sia nella sua relazione con il proprio corpo, sia nelle relazioni con il corpo degli altri. Deve anche imparare ciò che conviene fare o che non conviene fare nell’inscrizione del proprio corpo nelle sue relazioni con gli altri esseri parlanti. Ogni civiltà trasmette le sue proprie tradizioni riguardanti le proibizioni, gli usi leciti, o le prescrizioni che colpiscono il corpo.
L’essere parlante dovrà anche imparare che nel mondo ci sono delle donne e che ci sono degli uomini; che queste donne e questi uomini hanno corpi differentemente sessuati. Dovrà anche sapere come inserire il suo corpo, dotato di un certo sesso, nella sua relazione con uomini o donne. Il corpo così concepito non appartiene alla realtà che è quella dell’organismo che lo supporta. Partecipa di una realtà che si potrebbe chiamare etica, dove, quando si tratta di questo corpo, si giudica di quello che è bene e di quello che è male.
Lacan ha sottolineato che ciò che è più fondamentale nelle relazioni sessuali dell’essere parlante ha a che vedere con il linguaggio. In questo senso non è per caso che chiamiamo la lingua di cui ci si serve la nostra lingua materna. Il ragazzo è attratto dalla madre, e la ragazza è in una relazione di rimprovero con lei. È perché le relazioni tra uomini e donne hanno un ruolo decisivo nella formazione dei sintomi. È quello che aveva appuntato Freud. Tutto ciò che ha a che vedere con il sesso, è sempre destinato a fallire. Lacan ha dato una formula apparentemente sorprendente di questo vicolo cieco sessuale: non c’è rapporto sessuale - ha strombazzato con un’innegabile provocazione all’epoca della liberazione sessuale. Quest’assenza di rapporto sessuale vuol dire che non c’è per l’essere parlante, a livello sessuale, un programma naturale che si potrebbe scrivere. Questo è dovuto alla distorsione introdotta dalla struttura del linguaggio nella funzione sessuale biologica naturale. È quello che Freud aveva indicizzato sotto il nome di perversione polimorfa, che segnava fin dall’inizio la vita sessuale del bambino.
Il fiasco sessuale è al centro di qualsiasi relazione di parola. Gli uomini e le donne parlano soltanto di questo, per lamentarsi del proprio fiasco o del fiasco degli altri. Il fiasco, qualsiasi volto prenda, ha sempre a che vedere con il fiasco sessuale. Freud notava che qualsiasi atto mancato, qualsiasi lapsus, aveva sempre a che vedere con il sesso. Bisogna qui citare un lapsus saporito di un’ex-ministra di un governo francese che, esprimendosi sulla situazione economica del nostro Paese, dichiarò alla televisione che la preoccupazione numero uno dei francesi era la fellazione, lì dove avrebbe voluto dire l’inflazione.
Freud ha scritto, nel suo libro su “Inibizione, sintomo e angoscia”, che: “Un sintomo è il segno (Anzeichen) e il sostituto (Ersatz) di una soddisfazione pulsionale che non ha avuto luogo”. Così, il sintomo è in relazione con una soddisfazione che manca; ma quello che bisogna sottolineare è che questa assenza di soddisfazione non è casuale. È irriducibile. Non la si può correggere. È costitutiva; e ne dà testimonianza il fatto che il sintomo, che ne è il segno, non può mai essere portato a zero. Persistono sempre quelli che Freud aveva isolato come resti sintomatici. Quello che rimane sempre incompiuto a livello della soddisfazione è quello che Lacan ha chiamato l’inesistenza del rapporto sessuale negli esseri parlanti. I sintomi sono sempre il segno di questo non rapporto sessuale, e i resti sintomatici sono il segno dell’impossibilità di scrivere il rapporto sessuale.
In questo senso di segno, il sintomo è concepito, a livello della parola, come un messaggio e una metafora di questa inesistenza del rapporto sessuale. In questo posto può essere interpretato nell’ambito del dispositivo di parola dell’analisi. Ma il sintomo è anche un sostituto di questa soddisfazione che manca, e, in questa misura, Freud non ha mai smesso di sottolinearlo: il sintomo è una soddisfazione. È un’altra soddisfazione introdotta nel corpo dall’effetto della parola e del linguaggio, ma è la soddisfazione che non ci vorrebbe. È la soddisfazione che non ci vorrebbe perché costituisce un ostacolo alla relazione soddisfacente dell’essere umano con il suo corpo e il corpo degli altri. La soddisfazione che vorrebbe rimane per sempre assente. Quest’altra soddisfazione introdotta dal linguaggio è una soddisfazione deviata rispetto alla soddisfazione che vorrebbe.
Così, in quanto segno, il sintomo è presente nella parola come messaggio. È trasportato dal significante e ha una significazione che può essere ascoltata e interpretata. Nella sua costituzione, però, il sintomo prende il suo materiale nel corpo, ed è a questo livello che si lega una soddisfazione che non cessa. Lacan è arrivato a qualificare il sintomo come evento di corpo, ma fin dall’inizio del suo insegnamento, mentre notava il fatto che il sintomo era parlato, aveva rilevato questa partecipazione del corpo nella formazione di un sintomo. Lo qualificava come “simbolo scritto sulla sabbia della carne”. Il riferimento al corpo coinvolge la dimensione della scrittura. Perché? Il significante è articolato nella parola, ma il significante deve anche essere considerato nella materialità che gli offre il suo supporto. È per esempio il carattere di stampa, che presentifica ciò che chiamiamo la lettera; nella misura in cui è a livello del corpo che si localizza l’articolazione significante del sintomo. È il corpo che fornisce il carattere di stampa, la lettera, per scrivere il sintomo. È nella carne che il sintomo incontra la scrittura e la lettera. Il sintomo è parlato, ma è anche scritto. È incarnato e realizza la sua scrittura con elementi presi dal corpo.
Quindi, dal momento che abbiamo estratto queste due coordinate del sintomo, parola e scrittura, quali sono le conseguenze a livello della pratica dell’interpretazione analitica? Nel registro della parola il sintomo è ascoltato e il suo senso è interpretato. Quando si aggiunge il livello in cui il sintomo è scrittura, siamo portati ad elaborare una concezione della lettura del sintomo. Quando si tratta dell’esperienza di parola, che costituisce la cura analitica, la lettura del sintomo suppone la trasmutazione della parola in scrittura. Questa operazione è necessaria, perché ciò che è detto non si presta immediatamente ad essere letto. Ciò che è detto porta piuttosto ad essere ascoltato, e ascoltare vuol dire ascoltare il senso di quello che è detto. Leggere è un’altra cosa.
Ad esempio leggere, giocando sull’omofonia di ciò che è stato detto, costringe a riferirsi all’ortografia, cioè alla buona maniera di scrivere. Giocare sull’omofonia è possibile soltanto se ciò che è detto nello stesso modo, si può scrivere in maniere differenti.
Si può anche leggere ciò che è detto sfruttando le risorse della grammatica. Colui che interpreta ad esempio rovesciando il soggetto e l’oggetto, suppone che l’inconscio conosca le regole della grammatica.
All’omofonia e alla grammatica, Lacan aggiunge la logica. Anche essa non terrebbe se non attraverso lo scritto. Non è assoggettata al principio di contraddizione, a dispetto dei paradossi che la assalgono.
Due esempi di questa pratica della lettura di ciò che è detto.
Il primo trae vantaggio dalle risorse dell’omofonia. Una paziente in analisi inizia una seduta così: “L’ultima volta mi sono fermata sulla parola incidente. Ho l’impressione di incontrare lì un taglio”. Quando abitava in un certo posto aveva sempre la voglia di abitare altrove.
Poi racconta un sogno: “Ho un appuntamento con un ragazzo. Camminiamo. Siamo in montagna. Il terreno è accidentato”. E, subito dopo, riporta un secondo sogno: “C’era una vasca quadrata minacciosa, non si doveva cadere dentro. Un bambino corse e cadde. Era angoscioso. Nel sogno c’era questo bordo con questo pericolo”.
Dopo, la paziente legge il suo sogno. Dice: “È una posizione mia. La parola bordo (bord) mi fa pensare alla parola bordello (bordel) che ho già incontrato nella mia analisi. È una parola che mi ha permesso di afferrare qualcosa di mia madre. Era una parola che ripeteva con piacere (dilectation) all’età di due anni. Me l’hanno raccontato. Questa parola raccoglie diverse cose intorno alle quali sto girando. È una cosa avvilente che si associa con la femminilità. È una specie di verità su mia madre. È un sigillo che avrebbe segnato la discendenza materna, mia madre e mia nonna. Mio padre classificava queste donne dal lato delle prostitute. Oggi, con questo sogno, leggo diversamente la parola bordello, la leggo in due parole: bordo (bord) e lei (elle). È un posto che mi vedo occupare nella vita: essere sul bordo rivolta verso di lei, ma nell’impossibilità di raggiungerla. Era soltanto attraverso la frattura, che la speranza di un cambiamento era possibile. Un bordo e un al di là mi permettevano di respirare per essere viva. Per vivere il presente dovevo essere su un bordo, percepire che ciò poteva rompersi, e risentire la possibilità della rottura”.
L’altro esempio prende spunto dalle possibilità della grammatica.
Una paziente in analisi racconta di avere dei sogni ripetitivi dalla nascita di sua figlia: “La prima volta ho sognato che la soffocavo. Mi sveglio confusa. In un altro sogno, che ho fatto più volte, mia figlia si trova tra me e mio marito. Dimentichiamo che lei sta lì, e la soffochiamo. Mi domando perché il sogno si ripeta. La prima volta, dopo il sogno, mi sono fatta questa domanda: non la soffoco un po’ troppo con la mia presenza? Nella sala d’attesa mi sono ricordata di qualcosa: da piccola vestivo una camicia da notte; la mattina, mia madre me la toglieva, e allora avevo paura di rimanere bloccata sotto la camicia e di soffocare. Facevo tutto il possibile perché non me la togliesse. Avevo anche il timore di soffocare e di non poter respirare quando avevo qualcosa sopra il mio viso”.
“Al di là del mio timore di soffocare mia figlia, mi sono chiesta se lei non mi soffocasse in certi momenti. A partire da questi sogni ho notato recentemente di avere delle reazioni molto vive. Mi sono ribellata contro la famiglia di mio marito. Il fine settimana dovevamo presentare nostra figlia alla famiglia. All’ultimo momento il fratello di mio marito si è invitato per fare la presentazione di suo figlio, che è nato quattro giorni prima di nostra figlia. Mi sono arrabbiata”.
Nella seduta successiva presenta quest’altro sogno: “Mia nonna è nel salone. Entra mio nonno che mi chiede: mi riconoscerà? Ha dimenticato tutto. Nella realtà mia nonna è morta, e mio nonno ha perso la memoria. Mi sono ricordata questo sogno perché mi sono chiesta perché ero così arrabbiata la settimana scorsa. Questo mi ha fatto pensare alla nonna e a mia zia, che potevano arrabbiarsi, e io non potevo oppormi a mia nonna o a mia zia; ma mi oppongo fortemente alla famiglia di mio marito. Al momento della sua nascita, quando mi hanno messo mia figlia in braccio, mi è venuta in mente questa frase: è una bambina leggera; e sogno che la soffoco. Mia nonna mi soffocava. Non ero una bambina leggera quando ero piccola. Tentavo di essere seria per calmare mia nonna”.