martedì 15 maggio 2012

Può esistere una società senza follia?

L’argomento di questa serata mi ha posto di fronte a diversi interrogativi: di quale follia stiamo parlando? La follia della psicopatologia della vita quotidiana? La follia criminale? La follia femminile? La follia amorosa? O ancora la follia quantitativa dei sistemi di valutazione
psichiatrica?
Un fatto di cronaca, accaduto mentre preparavo questo intervento, è stato l’occasione per una riflessione che parte dalla cosiddetta follia omicida per spaziare nelle pieghe della follia che riguarda ciascuno di noi.
Nel pomeriggio dell’11 Marzo scorso un ragazzo di 24 anni, si arma di una pistola, si mette un casco nero, sale su uno scooter che ha rubato. Ha un appuntamento con un uomo, con il quale
ha forse finto di essere un potenziale acquirente della sua moto. Alle ore 16 nel parcheggio di una palestra di Tolosa, il ragazzo incontra l’uomo e gli spara a bruciapelo, colpendolo con numerosi proiettili, poi pronuncia queste parole: «tu uccidi i miei fratelli e io ti uccido». L’uomo è un militare francese. Il ragazzo filma tutta la scena con una telecamera fissata sul torace. E’ l’inizio di una serie di omicidi. Quattro giorni dopo, il 15 Marzo, due soldati di 28 e di 25 anni, vengono uccisi dallo stesso ragazzo con lo scooter, che ripartirà gridando «Allah Akbar!» (Allah è grande!)
Il lunedì seguente, il 19 marzo, il ragazzo dello scooter si ferma davanti al portone della scuola ebraica di Tolosa e spara a un professore di 30 anni e ai suoi due figli, Arieh, di 6 anni et Gabriel di 3 anni. Tutti e tre muoiono sotto i colpi. Poi il ragazzo entra nel cortile della scuola, afferra una bambina per i capelli, e la uccide sparandole in testa. Si tratta della figlia del direttore della scuola. Dopo aver gravemente ferito un altro studente di 17 anni, il ragazzo recupera il suo scooter e riparte. Il nome dell’omicida è Mohamed Merah.
La polizia lo ritrova braccato nel suo appartamento dove verrà ucciso dopo un assedio di 32 ore.
Questi fatti hanno sconvolto la Francia un mese e mezzo fa. Follia criminale ? Fanatismo religioso ? Fondamentalismo islamico ?
Gli studiosi della personalità si sono scatenati sull’evento in cerca di un perché, di un senso.
Ma soltanto lui, soltanto Mohamed Merah, avrebbe forse potuto dirci qualcosa su quello che lo ha spinto a questa follia omicida. O forse neppure lui non avrebbe potuto dire nulla sull’irruzione di un « reale » che lo ha travolto.
Il passaggio all’atto è sempre l’espressione di un reale che irrompe là dove il linguaggio fallisce nel suo lavoro di simbolizzazione. Per Mohamed non c’è stato, questo lavoro di simbolizzazione, né dopo la strage, né evidentemente neppure prima, durante la sua breve vita.
Un commentatore, in uno dei vari blog di scambio su internet, ha detto qualcosa di interessante a questo proposito : non è la società, non è la violenza mediatica, non sono i giochi video o i films pieni di aggressività, le cause che spiegano l’orrore di Tolosa.... forse è mancata a questo adolescente l’occasione di un « incontro » autentico con qualcuno che abbia potuto accogliere, ascoltare e permettergli di elaborare e arginare la sua violenza interna; noi possiamo aggiungere che non c’è stato (per lui) un incontro con la possibilità di soggettivare il proprio kakon[1], il proprio orrore, e nominare ciò che di inassumibile comporta il reale. La diagnosi che gli fu fatta nell’infanzia, per rendere conto degli insuccessi scolastici e della sua instabilità, diagnosi di « bambino affetto da disturbi del comportamento »[2] dimostra solo il non coinvolgimento, la non implicazione, di una psichiatria pigra e frettolosa. Più tardi per Mohamed si sono susseguiti : l’abbandono scolastico, lo scivolamento nella piccola delinquenza, il carcere, il tentativo fallito di entrare nella legione straniera, fino all’abbraccio di un fondamentalismo islamico a cui identificarsi per dare una risposta e una direzione all’insopportabile che lo abitava.
Quanto odio c’era dentro alla follia omicida di Mohamend Merah? E che cos’è l’odio? In un articolo intitolato « Pulsioni e loro destini » [3] Freud, ci insegna che l’odio è anteriore all’amore, l’odio è più antico dell’amore in quanto esso risale alle pulsioni di conservazioni dell’io, ossia è il modo di espellere dal corpo tutto ciò che è considerato o vissuto dall’io come malvagio, come un attacco. [4]
L’odio è un modo di esteriorizzare il male che è dentro, e che non può essere assimilato. Dunque l’odio è correlato al concetto di pulsione, un concetto che Freud ha separato dall’istinto e ha posto al limite tra lo psichico e l’organico.
Questa è l’elaborazione freudiana dell’odio del 1915, ma è nel 1920, cinque anni dopo, che Freud compie un passo veramente straordinario, innovativo, nel suo percorso di ricerca, e lo fa con l’introduzione e la scoperta della pulsione di morte. La questione della pulsione di morte
introdotta con l’articolo « Al di là del principio del piacere » si rivelerà subito essere uno scoglio scomodo, quasi scandaloso per ogni teoria psicologica dell’adattamento e del benessere
armonico. Una questione talmente imbarazzante che molti post-freudiani hanno cercato di svicolarla o di ammaestrarla, pur di non prenderla veramente in considerazione. Forse solo
Melanie Klein per un verso e Lacan per un altro, hanno avuto il coraggio di non indietreggiare di fronte alla questione della pulsione di morte. Che cosa c’è di così inammissibile in questa questione ? Freud aveva scoperto che l’aggressività non si trovava solo agita da un soggetto verso un altro soggetto, ma che essa esisteva all’interno dello stesso soggetto in termini di autodistruzione. C’è qualcosa nell’inconscio che si manifesta come godimento dell’autodistruzione, un godimento in eccesso, un più-di-godere.
In altre parole, il soggetto non vuole sempre il proprio benessere. Può succedere che agisca contro la sua stessa esistenza, contro la sua vita.
Gli atti di follia omicida come quelli di Mohamed finiscono spesso con un suicidio o con il farsi bersaglio di colpi mortali (« suicide by cops » : suicidio attraverso la polizia interposta,
un’altra forma di suicidio). E’ stato detto che l’omicida norvegese, Anders Behring Breivik, che ha ucciso l’anno scorso 77 persone, è una rara eccezione, poiché è rimasto in vita ( e sappiamo che proprio in questo periodo gli psichiatri e i periti che lo esaminano non riescono a mettersi d’accordo sulla diagnosi da pronunciare a suo riguardo). Quale follia può infatti spingere degli individui a dei crimini tanto efferati quanto illogici ? Sovente si tratta di persone che non dimostravano prima dell’evento tragico i segni classici della follia: il delirio, l’esagitazione incontrollata. Per esempio, nonostante il suo percorso difficile, Mohamed Merah era descritto nella sua vita quotidiana come gentile e disponibile, senza segni esteriori di follia , «lo avresti invitato volentieri a prendere il caffé », è stato detto di lui.
La follia, non è un concetto semplice. Si pensa sovente al folle come a colui che ha perso ogni libertà di pensare e di agire.
Era ciò che teorizzava lo psichiatra Henry Ey fondatore della corrente organo-dinamista. Secondo Henry Ey la libertà è una prerogativa normale dell’uomo che è impedita al malato mentale.
Lacan ha sovvertito questa logica, dicendo che il vero uomo libero è il « folle », perché non assoggettato all’ordine simbolico, quell’ordine che per lo psicotico è rigettato, forcluso.
Ma non dobbiamo pensare che Lacan facesse un elogio della follia, sul modello di una certa antipsichiatria. Al contrario, egli mette in evidenza che il « folle » patisce della sua libertà, perché si tratta di una libertà paradossale, che compromette il suo rapporto all’Altro e al desiderio. Lacan dirà che si tratta per la follia, della « libertà negativa di una parola che ha rinunciato a farsi conoscere »[5]. Quindi la follia non risiede in un Io incerto, smarrito, che dubita di se stesso, ma piuttosto in un Io che si crede davvero un Io, per esempio - come ci dice Lacan - in un re che si crede veramente un re, e che come tale è folle come un uomo comune che dice di essere re. E fa l’esempio di Napoleone che non si è mai creduto Napoleone se non alla fine, a Sant’Elena, quando Napoleone non lo era più[6].
L’interesse per la Follia ha marcato l’inizio del percorso di Lacan, che ha inaugurato la sua ricerca clinica con lo studio di un caso di psicosi paranoide, il caso Aimé, che fu il tema della sua tesi di
psichiatria. Quando discusse la sua tesi, fu redarguito dalla commissione per la sua supposta stravaganza. Lui stesso racconta l’aneddoto :
« Quando discutevo della mia tesi su «La psicosi paranoica e i suoi rapporti con la personalità», uno dei miei maestri mi pregò di formulare ciò che insomma mi ero proposto: « Insomma - cominciai - non possiamo dimenticare come la follia sia un fenomeno del pensiero... » .
Non dico che così io avessi indicato a sufficienza il mio intento : il gesto che m’interruppe aveva la fermezza di un richiamo al pudore : «Va bé! e poi? - significava. Passiamo alle cose serie. Vuole forse prenderci per il naso? Non disonoriamo quest’ora solenne. » Ciononostante fui accolto come dottore con gli incoraggiamenti che conviene accordare agli spiriti estrosi »[7]
L’estrosità del giovane Lacan era quella di considerare la follia come un fenomeno di pensiero. Non un deficit, una malattia, una lesione organica o funzionale, ma un fenomeno di pensiero, avente una causalità psichica e non organica .
Ed è in questo fenomeno di pensiero che Lacan inserisce tutta la dialettica dell’identificazione immaginaria, una dialettica in cui la questione dell’imago prende un’importanza fondamentale sia nell’analisi del gesto del folle, sia nella costituzione di ogni soggettività umana.
La radice dell’aggressività si iscrive all’interno di ogni soggetto e trova il suo paradigma (almeno nel primo tempo dell’insegnamento di Lacan) nel rapporto del soggetto con la propria immagine,
ossia nella rivalità (immaginaria) prodotta dalla propria immagine speculare presa come oggetto, come altro. Lacan riprende l’aforisma di Arthur Rimbaud : «l’io è un altro»[8]
per sintetizzare l’incidenza dell’immagine speculare nell’emergenza stessa del soggetto. Nello stadio dello specchio, il bambino che fa l’esperienza del riconoscimento di sé nell’immagine riflessa, ha una duplice reazione : la giubilazione di fronte all’unità e alla completezza che quell’immagine gli rimanda, ma anche una immediata rivalità carica di antagonismo ostile, che marcherà le sue future modalità relazionali. Marcherà per esempio il dramma della gelosia del bambino nei confronti di un fratello di età similare.
Il paradosso della costituzione dell’io è che da una parte «l’individuo umano si fissa ad una immagine che l’aliena a se stesso »[9], e dall’altra è proprio da questo rapporto «erotico» che trae l’energia e la forma che permette il prodursi di « quell’organizzazione passionale che egli
chiamerà il suo io (moi)»[10] Tuttavia se il piccolo d’uomo non attraversa questa fase, di identificazione alienante, non si costituisce in quanto soggetto. Inoltre, se in questo momento costitutivo e fondante dell’io, non interviene una funzione terza che permette di autentificare l’identificazione del soggetto con l’immagine speculare, la costituzione stessa dell’io è a rischio. Questa funzione terza, autentificatrice, è la presenza del desiderio dell’Altro, è per esempio la presenza dell’adulto che sorregge il bambino e che lo conferma nel suo riconoscimento, una presenza che permette di inaugurare la «dialettica che lega l’io a situazioni socialmente elaborate»[11]. Il trauma di una identificazione disastrosa può essere molto precoce e non occorre per questo che sia accaduto qualche cosa di eclatante, non occorrono abusi sessuali, botte, crudeltà, abbandoni; basta il non-desiderio dell’Altro per squalificare ogni solidità identificatoria e compromettere l’iscrizione del soggetto nel simbolico, vale a dire nella Legge
e nel sociale.
L’io, fin dall’origine, è dunque segnato da una sorta di aggressività che sgorga direttamente dall’identificazione del soggetto infans all’immagine speculare. Questo momento fondamentalmente alienante in cui si costituisce l’essere dell’uomo, può far precipitare il soggetto in una negazione mortale : «Si confondono così - dice Lacan - i due momenti in cui il soggetto si nega da sé e attacca l’altro »[12], come accade nei deliri paranoici.
Questo significa, che il conflitto è dentro al soggetto, nel senso, dice ancora Lacan che: « ogni partner confonde la patria dell’altro con la propria e s’identifica con lui»[13], così « l’aggressività (...) è sempre allo stesso tempo subita e agita, ovvero sottesa da un’identificazione con l’altro, oggetto della violenza» [14]. Allora come nella psicosi paranoide del caso Aimé il soggetto colpendo l’altro, colpisce sé stesso. E’ questa la lezione che dobbiamo tener presente anche nei crimini di Mohamed Merah, il pluriomicida di Tolosa. Chi voleva colpire Mohamed nella figura dei tre militari dell’esercito francese e in quella dei bambini della scuola ebraica? Che cosa ha scatenato la sua follia? Chi era il vero bersaglio dei suoi gesti folli ?
Quale Nome-del-Padre, forcluso, cioè mai giunto al posto dell’Altro, è stato chiamato quel giorno, in opposizione al soggetto? Domande che resteranno probabilmente senza risposta, ci
resta solo l’orrore di un passaggio all’atto senza ritorno. Domande che però ci mettono su una via di riflessione precisa : la via del reale e della sua incidenza in termini di godimento mortifero.
Il reale della psicanalisi è diverso dal reale della scienza, perché riguarda il godimento, riguarda proprio ciò che è escluso dalla scienza, in quanto impossibile a dire, a quantificare, a trasformare in cifre e in statistiche. Il reale evidenziato da Lacan è l’impossibile che emerge nell’esperienza
dell’angoscia, l’affetto che non mente.
Se il «reale» della psicoanalisi è diverso dal «reale» della scienza, anche «la follia» non ha per la psicoanalisi lo stesso significato che ha per la scienza medica o per quella criminologica o per il
senso comune. «Tutti delirano » diceva Lacan. Che cosa voleva dire? Voleva dire che l’uomo, in quanto essere parlante, ha sempre a che fare con la follia. «Il fenomeno della follia - ci dice Lacan - non è separabile dal problema della significazione dell’essere in generale, cioè del linguaggio per l’uomo»[15] e altrove dirà che «l’essere dell’uomo non solo non può essere compreso senza follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo, se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà»[16] . Questo significa allora che tutti gli uomini sono folli? In un certo senso sì, proprio per la relazione che ciascuno ha con il linguaggio. Nel senso che ogni uomo è alienato ai significanti ai quali si identifica. Ed è proprio nell’identificazione che per Lacan risiede la
causa psichica della follia. Per questo la follia non sarà mai totalmente sradicabile dalla società.
Però non si tratta per tutti della stessa folia. Gli uomini sono folli in maniera diversa. La psicosi per esempio è una forma particolare di follia che non si può generalizzare. La psicosi nelle sue forme di paranoia, schizofrenia, melancolia, ha una struttura diversa dalla follia della nevrosi, quella dell’isteria per esempio, che ha aperto a Freud la strada della sua ricerca e della sua invenzione. Per questo Lacan non è in contraddizione con l’enunciato « tout
le monde délire »[17] quando dice: «non diventa pazzo chi lo vuole»[18]. La scelta della struttura, non è infatti una scelta cosciente, essa resta, in ultima analisi, «una decisione insondabile dell’essere»[19], secondo la definizione lacaniana. Quello che sappiamo, quello che la psicanalisi ci ha chiarito, è che la condizione del soggetto « dipende da
quello che accade nell’Altro »[20] . Che cosa significa? Significa che il soggetto non è solo, non è una monade, e che non può essere studiato in modo isolato come pretende il discorso della scienza, che vorrebbe farne un oggetto a sé, da mettere sotto il microscopio, o sotto tutti i sofisticati strumenti di indagine e di immagineria, quali le investigazioni di rilevanza magnetica
(IRM). Un soggetto non è isolato, non si sviluppa secondo un programma interno, che funzionerebbe seguendo un progetto già prestabilito, che sarebbe identico in qualsiasi situazione o luogo della terra. Un soggetto è effetto del mondo simbolico in cui è immerso, in cui si trova a nascere e a crescere ; e questo mondo simbolico esiste già prima della sua nascita, lo precede. E’ fatto di linguaggio, di leggi, di tradizioni, di cultura.... E questo vale anche per il soggetto psicotico, il quale non è l’effetto di un deficit, non è assenza di ogni logica. Nel suo discorso c’è una logica, una logica particolare che la psicanalisi, a partire dal caso Schreber in avanti, ha
cercato di elucidare interrogandosi sul posto che occupa l’Altro per questo soggetto. La domanda è: a quale Altro ha a che fare quel particolare soggetto psicotico? La pratica clinica ci dimostra
che l’Altro può essere il luogo di un godimento mostruoso da cui il soggetto si sente perseguitato e tormentato. Ricordiamo che godimento in termini lacaniani non è il piacere, ma è piuttosto un dispiacere di cui il soggetto non può fare a meno.
Il clinico che si trova di fronte a uno psicotico, deve tener conto di questa relazione del soggetto con un Grande Altro feroce e deve quindi evitare di scivolare in questa posizione e di diventare lui stesso un persecutore. Nello studio privato, come in istituzione si tratta di favorire un incontro autentico di ascolto, di accoglienza, senza stritolare il soggetto con la presunzione di un sapere (un sapere sul soggetto, che equivale per lo psicotico a godere di lui). Possiamo fare l’ipotesi che il soggetto psicotico è un soggetto che non ha vissuto l’incontro con un Altro che abbia accolto il suo grido e che lo abbia umanizzato, trasformato in significante. Allora il soggetto psicotico deve costruirsi da solo ciò che non trova nell’Altro. Per lui il discorso del Padrone (in senso lacaniano) non fa barriera, non costituisce il limite a cui obbedire, non
introduce la legge simbolica da rispettare, trasgredire, o criticare, come accade nelle differenti posizioni del nevrotico.
Per questo la psicosi oggi ci interpella e ci è di insegnamento. Nella nostra epoca infatti,
l’ordine del simbolico non è più lo stesso di quello che era per le generazioni precedenti, e la legge, l’autorità tradizionale, non funzionano più da parapetto (in francese: garde-fou = ciò che trattiene il folle) Con l’avanzata della scienza, della tecnologia il reale è entrato sempre di più nella realtà. Il discorso della scienza e il discorso del Capitalismo promettono un più-di-godere illimitato al soggetto contemporaneo. Ma si tratta di un più-di-godere completamente sregolato che lascia il soggetto scombussolato, (senza bussola). Il fantasma stesso ne
risulta scompigliato. Il fantasma è ciò che normalmente permette al più-di-godere di restare a una buona distanza, a una distanza di sicurezza dal soggetto. Jacques Alain Miller diceva che con la destituzione del Discorso del Padrone, il fantasma stesso entra nel reale; fantasma e reale si confondono[21].
Il disagio della civiltà descritto da Freud non è più lo stesso. La nuova impasse della civiltà è data da un imperativo che spinge a godere sempre di più e ininterrottamente. L’obbligo di godere (nelle varie forme di: avere gli oggetti, essere perfetti, eliminare ogni frustrazione, ogni
tristezza, ogni minima difficoltà) ritorna come un boomerang sul soggetto, schiacciandolo sotto il peso del reale che è intrinseco al godimento. La supremazia del reale sul simbolico vorrebbe il rigetto di tutto ciò che va sotto il registro della castrazione,[22] ma per la psicanalisi è proprio la castrazione che permette di normalizzare il soggetto, nel senso che gli permette di desiderare. Allora la questione del declino dell’ordine simbolico e dell’egemonia del reale ci interessa nel nostro approccio alla follia.
Se l’ordine del simbolico cambia, cambiano anche i sembianti, poiché l’ordine del simbolico altro non è che una certa disposizione dei sembianti.
Cambiando i sembianti cambiano i godimenti individuali, ma cambiano anche i godimenti feroci che per esempio il paranoico attribuisce all’Altro. L’aumento vertiginoso dell’esigenza di un-più-di-godere da parte del soggetto, si traduce sul versante paranoico con un più-di-godere illimitato proiettato nell’altro persecutore.
Se il simbolico e l’immaginario servivano per proteggere in qualche modo il soggetto dall’irruzione del reale, con il vacillare dei sembianti e con il declino del Nome de Padre, il soggetto è più esposto alla follia del reale, al non senso del reale.
Nella pratica clinica ci confrontiamo a nuovi sintomi, che comunque restano sempre « i segni di ciò che non va nel reale »[23], e in cui i soggetti si presentono come assoggettati a un godimento invasivo che fa di loro degli : Uno divisi, tanti Uno soli, non in relazione. E esposti a forme sempre più insistenti di dipendenze, di depressione, di solitudine.
La relazione su cui l’analisi si fonda è quella del transfert, che permette che dell’amore sia mobilizzato, grazie al desiderio dell’analista. L’amore del transfert offre un’alternativa al godimento autistico.
Gli effetti di nominazione che procedono dall’analisi permettono di spostare i punti di fissazione del godimento e di non indietreggiare di fronte al reale, di fronte a ciò che di folle c’è nell’essere
umano e di fronte al punto di orrore, di inumano che c’è in ciascuno di noi.
Jacques Alain Miller invitato dal giornale Le Point a commentare i crimini di Tolosa ha sottolineato come l’aumento degli omicidi di massa, che era un sintomo della società americana
frammentata in ragione della dimissione dello Stato, sia ora anche una realtà europea. Miller ha terminato il suo articolo con una frase che mi sembra condensi in forma precisa la problematica dell’odio, dell’aggressività e del nostro rapporto con la follia: «L’odio è la più intensa
delle passioni. Può succedere che l’odio aggraffi tutto l’universo mentale di un soggetto, supplendo così al buco beante della sua psicosi. L’amore se la prende con le apparenze, allorché l’odio è radicale: prende di mira l’essere. Quando questo odio passa all’atto su dei bambini, il teatro segreto della pulsione si svela come «teatro della crudeltà» (Antonin Artaud). E allora è «
lo spavento, l’orrore, il brivido sacro». Perché ciascuno di noi, benché tutto preso dalla compassione, è anche sollecitato nella sua parte irriducibile di inumanità, senza la quale non c’è umanità che tenga»[24].
Cinzia Crosali
cinziacrosali@gmail.com


[1] Lacan mostra che ciò che cercava di raggiungere il criminale nell’oggetto colpito non era altro che il kakon, il nodo del proprio essere, il suo godimento più intimo (Discorso sulla causalità psichica. in Scritti, p. 169).
[2] E chissà a quale deficit si saranno riferiti !? Forse a un DDAI: (deficit disattenzione con
iperattività) o più probabilmente a un DOP (disturbo oppositivo provocatorio), ma sicuramente nessuna di queste etichette rende conto della struttura soggettiva di questa persona .
[3] S. Freud, Triebe und Triebschicksale, in Metapsychologie, 1915, trad. it., Pulsioni e loro destini, in Metapsicologia, in C. L. Musatti (a cura di), Opere, Bollati Boringhieri, Torino 2008, vol. VIII.
[4] « (L’io) caccia fuori di sé ciò che nel suo stesso interno diventa occasione di dispiacere » p.31
“L’io odia, aborrisce, perseguita con l’intenzione di mandarli in rovina tutti gli oggetti che diventano per lui fonte di sensazioni spiacevoli, indipendentemente dal fatto che essi abbiano per lui il significato di una frustrazione del soddisfacimento sessuale o del soddisfacimento dei suoi bisogni di autoconservazione. Si può addirittura asserire che gli autentici archetipi della relazione di odio non traggono origine dalla vita sessuale ma dalla lotta dell’Io per la propria conservazione e affermazione” (Freud, Opere, cit. vol.VIII° 1915, pag.33).
[5]
Lacan J., « Fonction et champs de la parole et du langage » (1953), Ecrits, op cit. p. 279.
In italiano: Scritti, Einaudi, Vol.1, pag.273
[6] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, op. cit. , vol. p.165
[7] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, Einaudi, vol.1.p.156
[8] Lacan J. L’aggressività in psicoanalisi (1948) in Scritti pag.112
[9] Lacan J. L’aggressività in psicoanalisi (1948) in Scritti pag.107
[10] Lacan J. L’aggressività in psicoanalisi (1948) in Scritti pag.107
[11] Lacan J., Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, (1949) in Scritti, pag. 92
[12] Lacan J. L’aggressività in psicoanalisi (1948) in Scritti pag.108
[13] Lacan J. «Il complesso di intrusione » (1938) in «Complexes familiaux dans la formation de
l’individu» cit. p. 11
[14] Lacan J. «Il complesso di intrusione » (1938) in «Complexes familiaux dans la formation de
l’individu» cit. p. 12
[15] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica » (1946) in Scritti, Einaudi, vol. p.160 (Ecrits page 166)
[16] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, Einaudi, vol. p.170 (Ecrits page 176)
[17] « Comment faire pour enseigner ce qui ne s’enseigne pas ? Voilà ce dans quoi Freud a cheminé. Il a considéré que rien n’est que rêve, et que tout le monde (si l’on peut dire une pareille expression), tout le monde est fou, c’est-à-dire délirant. » Jacques Lacan, « Journal d’Ornicar ? »
publié dans Ornicar ? 17-18, 1979, p. 278.
[18] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, Einaudi, vol. p.170
[19] Lacan J. «Discorso sulla causalità psichica» (1946) in Scritti, Einaudi, vol. p.171
[20] Lacan J. «Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi » in Scritti, op. cit. p. 545. (Ecrits, page 549)
[21] Miller J.A. 6. J.-A. Miller, « Le banquet des analystes », L’Orientation lacanienne, leçon du 4 avril 1990, inédit (Citato da Pierre-Skriabine: «La science,le sujet et la psichanalyse»)
[22] Lacan J. Sém. 19 « Ou pire...» (6.01.72) «Ce qui distingue le discours du capitalisme est ceci : la Verwerfung, le rejet, le rejet en dehors de tous les champs du symbolique avec ce que j'ai
déjà dit que ça a comme conséquence. Le rejet de quoi ? De la castration.»
[23] Lacan J., « Le Séminaire », livre XXII, « R.S.I. », lezione del 10 dicembre 1974, in Ornicar
?, n. 2
[24] Miller Jacques Alain article «Le théâtre secret de la pulsion» dans le «Le Point» page 46 22.03.2012

lunedì 7 maggio 2012

…Neppure nel giardino del Re

“Volli cercare il male

che tarla il mondo, la piccola stortura

d’una leva che arresta

l’ordigno universale; e tutti vidi

gli eventi del minuto

come pronti a disgiungersi in un crollo”

Eugenio Montale, Ossi di seppia (1920-1927)



“La nevrosi apparve come l’esito di una lotta fra gli interessi dell’autopreservazione e le richieste della libido, una lotta in cui l’io aveva riportato la vittoria, ma a prezzo di gravi patimenti e rinunzie”.[1]

Sigmund Freud, Il disagio della civiltà (1930)


Fino a qualche decennio fa se un giovane avesse formulato una domanda a partire da “Voglio..”, avrebbe ricevuto in risposta dall’adulto un chiarissimo, “Non se ne parla” e nei casi migliori si sarebbe sentito dire che quanto stava chiedendo proprio non era possibile a partire dal fatto che “l’erba voglio non cresce neppure nel giardino del Re”.[2] Ogni volta che un puerile irruente desiderio si mostrava all’Altro attraverso un deciso “Voglio!” non c’era scampo per il richiedente “in erba” ottenere qualcosa dall’adulto in modo imperativo era impresa valorosa e cambiare interlocutore spesso non portava risultati più soddisfacenti; il giardino del Re era il solo luogo, autorevole e autoritario insieme, per indicare che qualcosa di un irrefrenabile desiderio doveva assolutamente confrontarsi con un reale limitante e con l’Altro che decide. Un detto questo, del giardino del Re, alla base del sistema educativo delle pulsioni, per anni se non addirittura per secoli. Il meccanismo che lo sottende, promuovendolo ad assioma, è piuttosto semplice: più un qualcosa è proibito, più il desiderio aumenta ed il soggetto inizia a lavorare alla costruzione di una “personalità contro”, la stessa che anni dopo, in piena crisi adolescenziale, porta a dire NO all’autorità paterna. Chi l’avrebbe detto mai che quel giardino del Re sarebbe diventato rappresentativo di un limite utile e necessario all’autodeterminismo e individuazione di più generazioni? probabilmente le ultime generazioni ancora libere di desiderare!

Quali gli effetti di una società che non mette più limiti?

Nel disagio della civiltà Freud scrive che: “I bambini non ascoltano volentieri quando si parla della tendenza innata dell’uomo al “male”, all’aggressione, alla distruzione e perciò anche alla crudeltà”.[3] Tutte le fiabe camuffano il male con personaggi e creature terribili e crudeli destinate ad essere sconfitte in nome del “vissero felici e contenti”. L’uomo nero purtroppo non basta a scagionare tutti gli altri uomini, sedicenti buoni, di cui credono di far parte, dalle azioni malvagie. In una prospettiva storico sociale possiamo ricordare come tentativi di questo genere, ossia dividere tra buoni e cattivi, non siano serviti a togliere all’uomo il proprio mal-essere, inteso sia come male di vivere (disagio, stati depressivi) sia come malvagità del proprio essere: è accaduto dunque, in una prospettiva storica, che l’ebreo fu elevato al male che provoca la decadenza e la rivalità sociale; per cui fu dettato, ad un certo punto, che fosse perseguitato e annientato per ristabilire l’armonia perduta per sempre.

Ed è proprio questo il punto: la perdita. Il disagio sta nella perdita. L’uomo, da sempre, ricerca le cause di questa perdita, desidera ritrovare ciò che ha perduto. Oggi ciò che è perduto non è tanto l’oggetto quanto la causa del desiderio che è l’aspetto per cui desideriamo l’oggetto. Il depresso è dunque un soggetto che possiede l’oggetto, ma ha smarrito il proprio desiderio nei suoi confronti, perché la causa che glielo faceva desiderare è venuta meno e ha perso la sua efficacia. Slavoj Zizek a questo proposito scrive che: “Una persona che, per tutta la vita, sia stata abituata a vivere in una certa città e sia infine costretta a trasferirsi altrove è senz’altro rattristata dal pensiero di essere improvvisamente gettata in un nuovo ambiente; ma cos’è che la rende triste? Non è la prospettiva di abbandonare il luogo che per anni è stato la sua casa, ma la ben più sottile paura di perdere il suo attaccamento a quel posto”.[4] Perdere il desiderio per quella che è stata la sua casa per molto tempo. Alla luce di quanto detto, il disagio contemporaneo è forse dovuto alla consapevolezza di non poter più trovare in alcun luogo dell’Altro un limite che svolga, allo stesso tempo la funzione di generatore del desiderio, lasciandoci così contemporaneamente preda degli oggetti ma impossibilitati a desiderare in alcun luogo …neppure nel giardino del Re.

Raffaella Borio

 


[1] S. Freud, Il disagio della civiltà (1924 -1929), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1975, vol. 10, p. 605.
[2] “L’erba voglio non cresce neppure nel giardino del Re”. Questo simpatico detto proverbiale deve avere avuto origine al momento in cui i Re europei - a seguito della Rivoluzione Francese - hanno dovuto concedere alle rispettive popolazioni, uno statuto, una costituzione scritta che li privava del potere assoluto (“legibus soluti”) e metteva un limite al loro potere (nascita del c.d. “stato di diritto”). (In Italia ciò accadeva con lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia nel 1848). www.corriere.it/Rubriche.
[3]S. Freud, Il disagio della civiltà (1924 -1929), in Opere, vol. 10, op. Cit., p. 607.
[4] S.Zizek, Leggere Lacan, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.86.
La Segreteria di Torino della SLP in preparazione all'VIII Congresso dell'AMP:
L'ordine simbolico nel XXI secolo. Non è più quel che era. Quali conseguenze per la cura?
durante l'anno 2011-2012, ha organizzato quattro serate di lettura sul tema:
"Qual è la logica del discorso contemporaneo?"

I testi di riferimento sono stati
Il disagio della civiltà di S. Freud (Bollati Boringhieri)
Del discorso psicoanalitico di J. Lacan, in Lacan in Italia (La Salamandra)

Dal vivace dibattito che ne è scaturito pubblichiamo alcune riflessioni.