…Neppure
nel giardino del Re
“Volli
cercare il male
che tarla il mondo,
la piccola stortura
d’una
leva che arresta
l’ordigno universale;
e tutti vidi
gli eventi del
minuto
come
pronti a disgiungersi in un crollo”
Eugenio
Montale, Ossi di seppia (1920-1927)
“La nevrosi apparve
come l’esito di una lotta fra gli interessi dell’autopreservazione e le
richieste della libido, una lotta in cui l’io aveva riportato la vittoria, ma a
prezzo di gravi patimenti e rinunzie”.[1]
Sigmund Freud, Il
disagio della civiltà (1930)
Fino
a qualche decennio fa se un giovane avesse formulato una domanda a partire da
“Voglio..”, avrebbe ricevuto in risposta dall’adulto un chiarissimo, “Non se ne
parla” e nei casi migliori si sarebbe sentito dire che quanto stava chiedendo
proprio non era possibile a partire dal fatto che “l’erba voglio non cresce
neppure nel giardino del Re”.[2]
Ogni volta che un puerile irruente desiderio si mostrava all’Altro attraverso un
deciso “Voglio!” non c’era scampo per il richiedente “in erba” ottenere qualcosa
dall’adulto in modo imperativo era impresa valorosa e cambiare interlocutore
spesso non portava risultati più soddisfacenti; il giardino del Re era il solo
luogo, autorevole e autoritario insieme, per indicare che qualcosa di un
irrefrenabile desiderio doveva assolutamente confrontarsi con un reale
limitante e con l’Altro che decide. Un detto questo, del giardino del Re, alla
base del sistema educativo delle pulsioni, per anni se non addirittura per
secoli. Il meccanismo che lo sottende, promuovendolo ad assioma, è piuttosto
semplice: più un qualcosa è proibito, più il desiderio aumenta ed il soggetto
inizia a lavorare alla costruzione di una “personalità contro”, la stessa che
anni dopo, in piena crisi adolescenziale, porta a dire NO all’autorità paterna.
Chi l’avrebbe detto mai che quel giardino del Re sarebbe diventato
rappresentativo di un limite utile e necessario all’autodeterminismo e
individuazione di più generazioni? probabilmente le ultime generazioni ancora
libere di desiderare!
Quali
gli effetti di una società che non mette più limiti?
Nel
disagio della civiltà Freud scrive che: “I bambini non ascoltano volentieri
quando si parla della tendenza innata dell’uomo al “male”, all’aggressione, alla
distruzione e perciò anche alla crudeltà”.[3]
Tutte le fiabe camuffano il male con personaggi e creature terribili e crudeli
destinate ad essere sconfitte in nome del “vissero felici e contenti”. L’uomo
nero purtroppo non basta a scagionare tutti gli altri uomini, sedicenti buoni,
di cui credono di far parte, dalle azioni malvagie. In una prospettiva storico
sociale possiamo ricordare come tentativi di questo genere, ossia dividere tra
buoni e cattivi, non siano serviti a togliere all’uomo il proprio mal-essere,
inteso sia come male di vivere (disagio, stati depressivi) sia come malvagità
del proprio essere: è accaduto dunque, in una prospettiva storica, che l’ebreo
fu elevato al male che provoca la decadenza e la rivalità sociale; per cui fu
dettato, ad un certo punto, che fosse perseguitato e annientato per ristabilire
l’armonia perduta per sempre.
Ed è
proprio questo il punto: la perdita. Il disagio sta nella perdita. L’uomo, da
sempre, ricerca le cause di questa perdita, desidera ritrovare ciò che ha
perduto. Oggi ciò che è perduto non è tanto l’oggetto quanto la causa del
desiderio che è l’aspetto per cui desideriamo l’oggetto. Il depresso è dunque un
soggetto che possiede l’oggetto, ma ha smarrito il proprio desiderio nei suoi
confronti, perché la causa che glielo faceva desiderare è venuta meno e ha perso
la sua efficacia. Slavoj Zizek a questo proposito scrive che: “Una persona che,
per tutta la vita, sia stata abituata a vivere in una certa città e sia infine
costretta a trasferirsi altrove è senz’altro rattristata dal pensiero di essere
improvvisamente gettata in un nuovo ambiente; ma cos’è che la rende triste? Non
è la prospettiva di abbandonare il luogo che per anni è stato la sua casa, ma la
ben più sottile paura di perdere il suo attaccamento a quel posto”.[4]
Perdere il desiderio per quella che è stata la sua casa per molto
tempo. Alla luce di quanto detto, il disagio contemporaneo è forse dovuto alla
consapevolezza di non poter più trovare in alcun luogo dell’Altro un limite che
svolga, allo stesso tempo la funzione di generatore del desiderio, lasciandoci
così contemporaneamente preda degli oggetti ma impossibilitati a desiderare in
alcun luogo …neppure nel giardino del Re.
Raffaella
Borio
[1] S. Freud, Il disagio della
civiltà (1924 -1929), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1975,
vol. 10, p. 605.
[2] “L’erba voglio non cresce neppure nel
giardino del Re”. Questo simpatico detto proverbiale deve avere avuto origine al
momento in cui i Re europei - a seguito della Rivoluzione Francese - hanno
dovuto concedere alle rispettive popolazioni, uno statuto, una costituzione
scritta che li privava del potere assoluto (“legibus soluti”) e metteva un
limite al loro potere (nascita del c.d. “stato di diritto”). (In Italia ciò
accadeva con lo Statuto di Carlo Alberto di Savoia nel 1848). www.corriere.it/Rubriche.
[3]S. Freud, Il disagio della
civiltà (1924 -1929), in Opere, vol. 10, op. Cit., p. 607.
[4] S.Zizek, Leggere Lacan,
Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.86.
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