lunedì 23 luglio 2012

C’è ancora qualcuno, oggi, a cui ci si può appellare?
Roberta Margiaria*

Cosa pretende l’uomo dalla vita?
Qual è la sua finalità? Tendere alla felicità o all’assenza di dispiacere?
Dalla penna di Freud, si deve prendere atto di come sia improba questa missione: l’uomo infatti deve difendersi dalla sofferenza che lo minaccia su più livelli, ossia dal corpo, dal mondo esterno e dalle relazioni con gli altri uomini.
“Il programma impostoci dal principio di piacere, raggiungere la felicità, è irrealizzabile” sentenzia Freud, “tuttavia non dobbiamo, anzi non possiamo abbandonare il tentativo di
accostarci a questo adempimento”.[1]
Questo “non dobbiamo anzi non possiamo”, sottolinea la posizione etica freudiana.
Non possiamo. Quale sarebbe il costo di tale rinuncia?
Ma se si decidesse di tentar l’ardua impresa, non rinunciare, come si può leggere nel testo, non riusciremo mai a soverchiare completamente la natura, “non la domineremo mai”,[2] o
potremmo anche dire, facendo esperienza di quanto è avvenuto anche solo qualche settimana fa (terremoto), potremmo illuderci di dominare e sfruttare la natura, ma presto o tardi, lei avrà il sopravvento.
La proposta di Freud: “da questo riconoscimento non deriva alcun effetto paralizzante; esso ci indica, al contrario, verso quale direzione indirizzare i nostri sforzi”.[3]
Dunque la proposta di lavorare sulle “istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli uomini nella famiglia, nello stato e nella società”.[4]
Se ciò che caratterizza la civiltà è la sommatoria di realizzazioni e ordinamenti che servono a proteggere l’umanità dalla natura e a regolare le relazioni tra gli uomini, grandi sono
state le scoperte.
Ciò che veniva trasposto sugli dei in termini di onniscienza ed onnipotenza sembra essere stato via via acquisito dagli uomini che sono divenuti e, diverranno sempre più, auspicava Freud, sempre più somiglianti a dio. Ma nonostante tutto ciò “l’uomo d’oggi, nella sua somiglianza con Dio, non si sente felice”.[5]
Ha raggiunto traguardi, ha posseduto e sottomesso terre e risorse, tutto ciò che gli è utile, eppure non basta. Bellezza, ordine e pulizia, appaiono come corollari alle priorità di sfruttar la terra a beneficio dell’uomo e per difenderlo contro le forze della natura, mettendo in evidenza però come l’uomo al contrario “manifesti una tendenza innata alla negligenza, all’irregolarità e alla confusione”.[6]
“La vita umana associata è resa possibile solo ad un patto: che più individui si riuniscano e che questa maggioranza sia più forte di un singolo e tale da restare unita contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si oppone allora come diritto al potere del singolo, che viene condannato come forza bruta. Questa sostituzione del potere della comunità a quello del singolo è il passo decisivo verso la civiltà.
La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro possibilità di
soddisfacimento, mentre il singolo non conosceva restrizioni del genere. Quindi il primo requisito della civiltà è la giustizia, cioè che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno”.[7]
Ma anche qui vi è un anelito di ribellione, anelito di libertà: “non sembra possibile influire sull’uomo fino ad indurlo a cambiare la sua natura in quella di un termite; egli difenderà sempre la sua esigenza di libertà individuale contro il volere della massa […] uno dei fatali problemi dell’umanità è se questo accomodamento tra le pretese dei vantaggi individuali e quelli della collettività sia raggiungibile in qualche particolare forma assunta dalla civiltà o se il conflitto sia
irrisolvibile”.[8]
Il parallelismo tra il processo di incivilimento e l’evoluzione libidica del singolo è ormai chiara: la frustrazione civile domina il campo delle relazioni sociali degli uomini. Frustrazione o potremmo dire limitazione del proprio godimento.
Questa lettura appare però sempre più apertamente distonica con quanto si vede in questa nostra epoca. Se il tentativo che fin ora è stato fatto e a cui abbiam acconsentito è stato il credere che ci potesse essere qualcuno o qualcosa che potesse saturare le nostre mancanze o miserie, per dirla con Freud, abbiam però dovuto verificare, nostro malgrado che la soluzione non ha funzionato.
Malesseri individuali e delle società stanno forse mettendo nuovamente in campo quanto ha sperimentato e scoperto l’uomo delle origini che “dipendeva dalle sue mani migliorare la propria sorte sulla terra col lavoro”,[9] facendo nascere la civiltà totemistica che si basa sulle restrizioni che i fratelli dovettero imporsi l’un l’altro per conservare il nuovo stato di cose?

* Partecipante alle attività della SLP

[1] S.Freud, Il disagio della civiltà (1929) in “Opere”, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol.10, p. 575.
[2] Ibidem, p. 577.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Ibid, p. 582.
[6] Ibid, p. 584.
[7] Ibid, p. 585.
[8] Ibid, p. 586.
[9] Ibid, p. 589.
Cos’è che fa legame?
Paola Antoniotti*

Il testo di Freud “Il disagio della civiltà” nasce come una risposta ad una lettera inviatagli da Romain Rolland, uno scrittore francese, premio nobel per la letteratura nel 1916, con il quale Freud aveva un carteggio, e che definiva l’esperienza mistica come sentimento oceanico o sensazione oceanica. Secondo Rolland, il sentimento oceanico è la fonte della vera religiosità. Dal canto suo, Freud scrive: “Potrei dire che per me ciò ha piuttosto il carattere di un’intuizione intellettuale, non certo priva di una risonanza emotiva, che comunque si accompagna anche ad altri atti di pensiero di portata analoga. Per quanto riguarda la mia persona non riesco proprio a convincermi della natura primaria di un tale sentimento”.[1]
Freud nega dunque l’esistenza di questo sentimento sostenendo piuttosto che esiste nell’essere umano una netta divisione tra Io e mondo esterno. Forse solo la condizione infantile pre-edipica si può paragonare a questo sentimento oceanico. Si tratta in qualche modo sempre del desiderio di ritrovare quel paradiso perduto da cui si è stati estromessi e in cui il bambino si è sentito onnipotente e immortale. Non è da subito che esiste questa distinzione tra Io e mondo esterno ma viene a crearsi a causa del dominio del “principio di piacere”.
Il "principio di piacere” stabilisce lo scopo della vita umana, domina il funzionamento dell’apparato psichico, ma è destinato a fallire. La sofferenza infatti ci minaccia da più parti: il nostro corpo, il mondo esterno, le relazioni con gli uomini. Quest’ultimo punto è anche quello che produce la maggiore sofferenza, in fondo l’essere umano è incapace di sopportare il peso delle frustrazioni imposte dalla vita civile.
La definizione che Freud dà della parola civiltà è la seguente: “La parola civiltà designa la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: a proteggere l’umanità dalla natura, a regolare le relazioni degli uomini tra loro”.[2]
Per quanto riguarda il primo punto Freud evidenzia come le invenzioni e le scoperte scientifiche (navi, aerei, telescopio, telefono, macchina fotografica, ecc.) hanno permesso all’uomo di appagare tutti o quasi tutti i desideri delle fiabe, tanto da rendere l’uomo sempre più simile a Dio.
Immagina inoltre che nelle età future verranno fatti enormi passi avanti in questo processo di civilizzazione. “Pure […] l’uomo nella sua somiglianza con Dio, non si sente felice”.[3]
Quindi, la scienza e la tecnica, che migliorano la qualità della vita dell’uomo, che gli consentono di padroneggiare in qualche modo la natura, producono certamente un qualche tornaconto nell’economia della felicità, che Freud però definisce “un godimento a buon mercato”.
Relativamente all’efficacia della civiltà nel regolare le relazioni sociali tra gli uomini, che siano intese come relazioni con il prossimo, con l’oggetto sessuale o tra i membri di una stessa famiglia o di uno stesso stato, Freud dice: “ La vita umana associata è resa possibile ad un solo patto: che più individui si riuniscano e che questa maggioranza sia più forte di ogni singolo e tale da restare unita contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si oppone allora come “diritto” al potere del singolo, che viene condannato come “forza bruta”. [4]
E’ necessaria quindi la rinuncia al soddisfacimento pulsionale individuale compensata dal non
essere più in balia della forza bruta del simile affinché ci si incammini in un processo di civilizzazione. Freud ammette però che la maggior parte degli sforzi dell’umanità si infrangono nel tentativo di un accomodamento tra le pretese individuali e quelle della civiltà. Si tratta di un processo simile a quello che avviene nell’evoluzione libidica del singolo. Esiste un conflitto tra il principio di piacere che è ciò che domina la vita pulsionale dell’individuo, infatti Freud dice che la rinuncia pulsionale non è esente da pericoli, e quelli che considera i motori della civiltà, Eros e Ananke, cioè l’amore e la necessità. L’amore è ciò che lega nel modo più intenso gli individui, più del lavoro o di altre forme di legame, l’amore è in grado di produrre nuovi legami anche con persone estranee al gruppo o alla comunità. Ma anche se l’amore è uno dei motori della civiltà il nesso tra i due cessa di essere univoco: “Da un lato l’amore si oppone agli interessi della civiltà, dall’altro la civiltà minaccia l’amore con grandi restrizioni”. [5]
Il conflitto sembra quindi essere inesauribile, nonostante i molteplici modi di fare legame: l’amore, il lavoro, la famiglia, ecc. c’è sempre in fondo un conflitto che è strutturale. Si tratta di modalità di fare legame che suppliscono ad una mancanza fondamentale che è stata formalizzata da Lacan come “assenza di rapporto sessuale”.

* Partecipante alle attività della SLP

[1] S. Freud, Il Disagio della Civiltà (1929), in “Opere”, vol.10, p. 558.
[2] Ibid, p. 580.
[3] Ibid, p. 582.
[4] Ibid, p. 585.
[5] Ibid, p. 592.

La civiltà sostiene il desiderio?
Antonietta Meo*

Il disagio della civiltà nasce dalla lotta continua fra l’interesse all’autoconservazione e le esigenze della libido, scrive Freud. [1]
A partire da ciò, l’autore fa riferimento alla nevrosi e, in particolare, ai sintomi che si producono, i quali riguardano i propri soddisfacimenti sostitutivi e non sono senza sofferenza, creando anche difficoltà con l’ambiente e con la società.
Freud si interroga sul comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso”, aprendo la questione
su due punti: 1) posso amare, ma l’ideale di me stesso, 2) posso non amare una persona perché mi è estranea e amandola compirei un’ingiustizia. L’amore di cui si tratta nell’enunciato del comandamento è un amore universale che punta a delle garanzie e dietro si nasconde il fatto che l’uomo non è una creatura mite, bisognosa d’amore, ma che il suo corredo pulsionale comprende una buona dose di aggressività, per cui l’altro è, in ultima istanza, solo un oggetto sessuale.
Freud parla di ostilità primaria e la società civilizzata è minacciata dalla disgregazione. La civiltà, sostiene fermamente Freud, nello sforzo di impedire le manifestazioni più brutali della violenza, non si esime dall’esercitare violenza sui criminali senza che la legge colga le manifestazioni più discrete dell’aggressività umana.
Ancora oggi si pensa che togliendo la proprietà privata, per esempio, oppure puntando all’uguaglianza, si possa eliminare l’aggressività. L’aggressività non è stata creata dalla proprietà, sottolinea Freud in questo capitolo, ma emerge a partire dall’infanzia del soggetto. L’uomo ha barattato un po’ della sua felicità per un po’ di sicurezza, andando verso l’inibizione pulsionale. Ma oltre all’inibizione pulsionale si dovrà affrontare la minaccia di una condizione che è “ la miseria psicologica delle masse”, avviandosi peraltro ad una reciproca identificazione dei membri; la rimozione non può che procedere di pari passo con la civiltà.
In tutto ciò si coglie l’attualità di Freud, in quanto si domanda dove sia finito il desiderio e come si articola nel suo rapporto costituente con la Legge. L’esperienza indistruttibile del desiderio nell’epoca attuale è difficile da attuarsi perché la Civiltà chiede l’immediatezza del godimento e sappiamo che senza l’esperienza del limite, della castrazione, non si dà esperienza del desiderio che appunto necessita dell’alleanza con la Legge. Oggi invece si raggira la Legge, si cercano le scorciatoie.
Lacan dice che non c’è desiderio senza sostegno simbolico della legge,[2] da qui la necessità di
pensare insieme e non in una cieca opposizione, desiderio e Legge, pensare l’alleanza che li costituisce come il retro e il verso di un unico foglio. Il soggetto freudiano è diviso tra il programma normativo del principio di realtà e quello del principio di piacere.
Una mia interrogazione è: ma oggi, la civiltà aiuta e sostiene la sublimazione? Oggi forse c’è una falsa liberazione della pulsione a partire da un godimento immediato che la civiltà oggi promette, ma che sembrerebbe porti a spegnere quel movimento di desiderio. Il soggetto oggi deve essere solo adeguato e conformato, ridotto dal potere delle merci a essere merce tra le altre.
La sublimazione offre alla pulsione una soddisfazione diversa rispetto a quella offerta dalla rimozione.
La sublimazione è distinta dall’economia di sostituzione in cui solitamente si soddisfa la pulsione in quanto rimossa.

* Partecipante alle attività della SLP

[1] S. Freud, Il disagio della civiltà (1929), in ”Opere”, Bollati Boringhieri, Torino 1978, vol. 10.

[2] J. Lacan, Il Seminario, Libro VII, L’etica della psicoanalisi (1959-60), Einaudi, Torino 1994.


Eredità e mutamenti
Cinzia Sobrero*

Colpisce il modo in cui questo testo, fortemente legato e connesso al tempo in cui è stato scritto, non solo rappresenti, già dai primi capitoli, un’analisi precisa dell’origine della civiltà, degli influssi che l’hanno promossa e dei bisogni a cui ha risposto, ma che sia anche fortemente proiettato in un dopo che riguarda il nostro tempo in modo diretto.
Freud considera la civiltà europea occidentale del suo tempo come giunta al suo apice, riconoscendo forse l’inizio di un cambiamento radicale, sia nei modi del legame all’interno della
civiltà stessa, sia nella condizione soggettiva e particolare dell’essere umano.
Nel corso del secondo capitolo, egli mette bene in rilievo i tre rimedi principali, sorta di palliativi, che l’uomo avrebbe trovato per avere a che fare con l’infelicità, con il fatto che il principio di piacere ha un programma preciso, ma che è in costante conflitto non solo con il mondo esterno, ma anche con aspetti del mondo interno appartenenti al soggetto stesso.
Egli riconosce:
- Diversivi potenti, annoverando tra essi l’attività scientifica.
- Soddisfacimenti sostitutivi come l’arte e la bellezza.
- Sostanze inebrianti, e le conseguenti intossicazioni che puntano a rendere insensibili al dolore.
- L’amore, quindi, il far legame.
- La fuga nella malattia nevrotica, con i suoi sintomi.
In modo differente, ognuno di essi svolge una funzione per il soggetto. Alcuni, nel versante di una sublimazione delle pulsioni, ottenendo piacere dal lavoro psichico ed intellettuale; altri,
in quanto difesa dalla misera condizione umana.
Penso possa essere interessante, rispetto in particolare ad alcuni di questi rimedi, interrogarsi su quali siano le condizioni che permettono, all’interno di una civiltà, di rappresentare una risorsa soggettiva, per l’appunto un rimedio, piuttosto che rimandare invece ad un isolamento, ad un godimento autistico, tanto comune nella civiltà contemporanea.
Per quanto riguarda per esempio il ricorrere all’utilizzo di sostanze psicotrope, mi sembra che Freud indichi già qualcosa di prezioso, scrivendo che “gli effetti prodotti dagli inebrianti nella lotta per conquistare la felicità e per difendersi dalla miseria vengono considerati talmente benefici che gli individui e i popoli hanno loro riservato un posto preciso nella loro economia libidica”. Designando questo “posto preciso” già si delinea qualcosa di un discorso sociale, con i
suoi limiti e le sue regole, che può fungere da riferimento per il soggetto.
Allo stesso modo, mi sembra importante il riferimento che Freud fa al progresso tecnico, evoluzione dell’attività scientifica: già in quel tempo egli sostiene come esso sia privo di valore per l’economia della felicità dell’uomo, riconducendolo a quello che chiama “modello del godimento a buon mercato”.
Per finire, un altro punto che vorrei sottolineare e che ho trovato molto interessante è quello della conservazione del passato: Freud ci porta come esempio la città eterna, Roma, per pronunciarsi in seguito sul funzionamento della vita psichica, nella quale, dice, “il passato può essere conservato e non necessariamente va distrutto”, rendendo la conservazione una regola piuttosto che una sorprendente eccezione.
La funzione che riveste la memoria, la storicizzazione e anche qualcosa di un’eredità, che viene trasmessa di generazione in generazione mi sembra cruciale per definire ed analizzare una qualsiasi forma di civiltà: mi chiedo che forme possa avere assunto tale funzione nel nostro tempo; cosa permette al soggetto contemporaneo di avere ancora una storia da raccontare e all’interno della quale reperirsi?

* Partecipante alle attività della SLP
L'io non è padrone in casa propria
Stefano Avedano*
Ciò che Freud pone come introduzione a “Il disagio della civiltà” è una precisazione teorica su come la psicoanalisi intenda la nozione di Io, a partire dalla suggestione che egli riceve dal poeta Romain Rolland sul sentimento oceanico. Scrive Freud: “Si tratta di un sentimento di indissolubile legame, di stretta appartenenza al mondo esterno nel suo insieme”.[1]
L’illusione sulla quale l’individuo fonda la sua identità è quella che si fonda sull’essere in quanto unitario, autonomo e contrapposto a ciò che intendiamo comunemente come realtà esterna. Freud in realtà sostiene come l’Io conti al suo interno un “nucleo” che gli è estraneo; nucleo che si riverbera sulla realtà esterna dandole una forma squisitamente singolare e a misura di
quell’individuo.

INTERNO – ES – SIMBOLICO (S) // ESTERNO – OGGETTO – REALE (a)

La psicopatologia della “vita quotidiana” ci offrirebbe molti esempi di come non si possa sostenere la netta demarcazione fra realtà interna e realtà esterna “[…] ci sono casi in cui parti del proprio corpo, perfino porzioni della propria vita psichica, percezioni, pensieri, sentimenti, appaiono come estranei e non appartenenti all’Io”;[2]
per riprendere una nota formulazione di Lacan, ciò che è stato precluso, ossia non simbolizzato, ritorna nel reale, “ci sono altri casi in cui al mondo esterno viene attribuito ciò che manifestamente ha avuto origine nell’Io e che da esso dovrebbe essere riconosciuto”,[3]
il sintomo e il fantasma nevrotico in questo caso.
Lacan, durante il corso del suo insegnamento, prenderà a prestito dalla topologia
alcune figure che possono fornire una rappresentazione utile a cogliere il rapporto fra interno ed esterno, fra la cosiddetta realtà interna e la realtà esterna: il soggetto che si ri-trova nel procedere lungo un percorso prestabilito, si sorprende improvvisamente in un “luogo” diverso da quello in cui pensava di essere, poiché fa esperienza di una continuità topologica fra interno ed esterno.
L’oggetto prenderà posto, a seguito dell’ingresso nell’universo simbolico, come “esterno”
al soggetto, come qualcosa che immaginariamente è collocato “fuori di sé”.
È attraverso l’instaurazione del principio di piacere che, oltre a permettere al
soggetto di distinguere tra piacere e dispiacere, si riproduce una demarcazione fra un dentro e un fuori.
L’inconscio storico, il rimosso, è ciò che si può ri-costruire attraverso un lavoro attivo di elaborazione, a partire da quel taglio simbolico che consente di modificare per un istante il
proprio punto di vista.

* Partecipante alle attività della SLP
[2] Ibid, p. 559.
[3] Ibid.