La
questione maschile
Bruno de Halleux
Nel
bel testo del 1912, Sulla più comune
degradazione della vita amorosa, Freud offre qualche orientamento sulla
vita affettiva, sensuale e sessuale dell’uomo. In questo articolo indica le
condizioni d’amore per gli uomini. Sappiamo che la sessualità maschile si
declina su due assi, quello della sensualità e quello della tenerezza. L’uomo
ama una donna attraverso l’intermediazione di sua madre – è la corrente della
tenerezza – o attraverso l’intermediazione dell’oggetto – è la corrente della
sensualità. Quando queste due correnti si riuniscono, l’uomo avrà un
“comportamento amoroso perfettamente normale”. Ma non è il caso più comune.
Il
testo di Freud è biblico: “L’uomo lascerà il padre e la madre – come prescrive
la Bibbia – e seguirà sua moglie: tenerezza e sensualità saranno allora
riunite”. Caso raro, dato che già nei Tre
saggi sulla teoria sessuale, ci dice che il sessuale nell’uomo incontra
numerose impasse e sviamenti. Gli anni 1910-1915 corrispondono ad un momento in
cui Freud elabora in diversi testi il concetto di fantasma.
Senza
riprendere questo punto nel dettaglio, ricordiamoci soltanto che, per un
soggetto nevrotico, ciò che sfugge nella realtà può compiersi nel fantasma. La
corrente sensuale che vorrebbe che il ragazzo scelga come oggetto d’amore i
suoi primi oggetti sessuali, è proibita. La libido si stacca allora dalla
realtà ed si aggancia all’attività fantasmatica. Questa attività fantasmatica
si lega successivamente alla masturbazione, in cui gli oggetti sessuali sono
fantasmatizzati per arrivare alla soddisfazione.
Freud
dispiega nei dettagli le ragioni per le quali un uomo in buona salute può
soffrire di impotenza psichica. Se accade che la sensualità di un giovane uomo
sia legata, nell’inconscio, a degli oggetti incestuosi, ne risulta a quel punto
un’impotenza assoluta. Da qui la bipartizione in due direzioni che ne risulta
per l’uomo. Cito: “Laddove gli uomini amano, non desiderano e laddove
desiderano, non possono amare”. C’è una necessità per l’uomo di scegliere una
donna che non ricordi alcun tratto che appartenga all’oggetto incestuoso. Si
tratta dello sminuire psichico dell’oggetto sessuale e si tratta di ciò che fa
sì che incontriamo regolarmente degli uomini che vengono a consultarci per una
patente impotenza con la loro partner, ma che, paradossalmente, non ne soffrono
con una prostituta. E’ perché la prostituta non è nella metonimia dell’oggetto
edipico, ovvero della madre per l’uomo. Dato che la prostituta è sminuita e
disprezzata, la sensualità si può manifestare liberamente e giungere a dei
risultati sessuali e ad un alto grado di piacere.
Ancora
una parola su Freud dato che, fedele al caso clinico da cui trae una teoria,
egli generalizza quello che dice sull’impotenza psichica praticamente a tutti
gli uomini. “I comportamenti amorosi dell’uomo nella nostra civiltà attuale
hanno, nel loro insieme, il carattere dell’impotenza psichica”. In altre
parole, la corrente tenera si fonde con quella sensuale solo per un piccolo
numero di esseri civilizzati.
Ci
si potrebbe porre la questione se un soggetto che è giunto alla fine della sua
analisi, colui che ha saputo testimoniarne in un modo tale da farsi intendere
da una commissione per ricevere una nomina di AE, se per un tale soggetto la
corrente tenera si è fusa con la corrente sensuale.
Un
AE si sente meno colpevole, meno diviso quando fa l’amore senza inibizioni e
senza timore con l’oggetto amato?
Rileggevo
in un testo di Lacan che “gli psicoanalisi meritano che ci si accorga che essi
non giudicano né meglio né peggio le cose della vita sessuale rispetto
all’epoca che fa loro posto, che non sono nella loro vita di coppia più sovente
due di quanto non lo si sia altrove” (“Allocuzione sulle psicosi del bambino”, Altri
Scritti). Mi ricordo anche di un altro testo in cui Lacan indica che la
psicoanalisi non dà alcuna ricetta sessuale, né istruzioni per l’uso. Se ne può
dedurre che un’analisi non esonera il soggetto dal trovare un bricolage che
vada bene con il suo o la sua partner.
Impariamo
qualche cosa di nuovo attraverso un soggetto che ha trovato una conclusione
alla propria analisi?
Su
questo non posso che testimoniare di un’esperienza personale. Personale, e
quindi non universale. Posso solo dire quello che si è trasformato nella mia
esperienza di vita affettiva e sensuale.
Diciamolo
subito, faccio parte del grande numero di soggetti maschili che si sono trovati
divisi nella loro vita amorosa. Come molti altri uomini la mia vita, prima
dell’analisi, si svolgeva sotto gli auspici del mio quadro fantasmatico, in cui
amavo una donna e ne desideravo un’altra.
In
un corso di Jacques-Alain Miller, ero rimasto sorpreso dal commento che egli
aveva fatto dello schema delle formule della sessuazione nel Seminario XX,
intitolato Ancora (J.
Lacan, Il Seminario, Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino). Questo schema rende conto dei soggetti che s’inscrivono
sul versante maschile o femminile della sessuazione. A sinistra l’uomo, a
destra la donna. Dal lato sinistro, ovvero dal lato maschile, c’è un’unica
freccia che va verso l’altro sesso. Il punto di arrivo della freccia si scrive
sul versante dell’oggetto, l’oggetto a.
S barrato freccia verso l’oggetto a
(S/ è a). In altre parole, l’uomo
sceglie sempre l’oggetto del fantasma che una donna riveste. C’era stata grande
sorpresa nell’uditorio quando J.-A. Miller aveva dichiarato che l’uomo è sempre
fedele al suo oggetto. Anche l’uomo che non smette di cambiare donna dò prova
di una grande fedeltà, dato che è fondamentalmente fedele al suo fantasma. In un certo senso, sceglie sempre lo
stesso. Non cessa di ripetersi.
Cito
Lacan: “Non gli è dato (all’uomo) di accostare il suo partner sessuale, che è
l’Altro, se non attraverso l’intermediario di questo che è la causa del suo
desiderio. A questo titolo, come lo indica la congiunzione di questo S barrato
e di questo a, non è nient’altro che
il fantasma”. Sappiamo che il fantasma è quel quadro attraverso cui il soggetto
nevrotico accosta il reale. Questo quadro che non si muove implica che il
soggetto non cessi di ripetere le proprie scelte nel corso della vita secondo
il medesimo modello. A meno che non decida di avviare un’analisi. Questo è il
valore che Lacan dà alla psicoanalisi. Quello di operare sul fantasma, ed è
questo che la distingue da ogni altra terapia.
Dal
lato dell’uomo, ciò con cui questi ha a che fare è l’oggetto a. La sua realizzazione rispetto al
rapporto sessuale sfocia sul fantasma.
La
posizione femminile è tutt’altra. Vediamo nello schema della sessuazione che
dalla donna (che scrive La barrata)
partono due frecce, una che va verso Φ, l’altra verso S(A barrato). Di solito
Φ, il fallo, la donna lo cerca presso l’uomo.
La
freccia verso S(A barrato) è più difficile da cogliere. S(A barrato) è il
matema che in questo seminario nomina il
godimento femminile o anche l’Altro
godimento; è molto difficile da cogliere questo Altro godimento, questo
punto in cui il godimento della donna non si riassorbe completamente sotto il
fallo. Cito ancora: “Nulla si può dire della donna. La donna ha rapporto con
S(A barrato) ed è in questo che essa si sdoppia, che non è tutta, poiché
d’altra parte, essa può avere rapporto con Φ”. Se si sdoppia, si può dire – è
quello che Miller diceva – che la donna è in un certo senso sempre infedele.
Anche quando è con un uomo e uno solo, non si limita solo a questo rapporto col
fallo nel suo rapporto all’Altro, è anche in un altrove, a livello di questo
Altro godimento, di questo godimento della donna che non appartiene al registro
fallico.
Allora,
alla fine di un’analisi? Che ne è del soggetto maschile? Ho ripreso in Spagna,
a La Coruña, un vecchio testo di Eric Laurent, che mette in luce due concezioni
della psicoanalisi. La prima rileva di un’interpretazione scorretta di quello
che Freud ha sviluppato sulla fine dell’analisi come roccia della castrazione,
a cui ogni essere parlante è sottomesso. Questa concezione della psicoanalisi
andrebbe dall’illusione alla disillusione. Si entra in analisi con le proprie
belle speranze, i propri sogni di poter cambiare il mondo, la propria credenza
nel fatto che si potrà essere liberi, uscire dalle proprie difese, dalle
proprie inibizioni, dalla propria nevrosi per vivere pienamente una scelta
amorosa e professionale. Ma dopo un certo numero di anni, esausto, affaticato
da un’analisi lunga ed interminabile, ci si arrende alle cose come sono,
bisogna accettare i propri limiti, la propria castrazione, la propria
impotenza. Infine, si è disillusi. Bisogna avere a che fare con i propri
sintomi, si è questo – niente di più e niente di meno – bisogna ben accettare
che il mondo sia fatto com’è fatto. E’ una versione triste della psicoanalisi.
Eric Laurent giunge a qualificare questa concezione della psicoanalisi come
cinica dato che, non domandando troppo, trovando un “assestamento” con il
proprio lavoro e con la propria donna, il soggetto conserva un piccolo
godimento. Si trasforma in un eremita cinico che ora sa che non bisogna
chiedere troppo all’altro, che nulla cambierà mai e che, dato che il mondo è
fatto così, che non c’è più né Bene, né Bello, né Vero nel mondo, deve
accettarlo ed adeguarsi docilmente.
Ebbene,
dopo una lunga analisi io stesso ero arrivato a questo punto di disillusione
nella mia vita. Mi ero presentato una prima volta alla procedura della passe ed
ero stato ammesso all’École de la Cause freudienne. Mi andava bene. Non mi
aspettavo più molto dalla psicoanalisi. Nel mio luogo di lavoro, aspettavo
pazientemente che il direttore terapeutico andasse in pensione e tornasse al
suo paese di origine perché alla fine, come l’ossessivo che sogna la morte del
padrone per un giorno rimpiazzarlo, potessi essere nominato direttore
terapeutico dell’Antenne 110, un centro per bambini autistici. Infine, riguardo
alla donna che avevo scelto per essere la madre dei miei figli, avevo imparato
a sopportare un allontanamento reciproco che andava bene ad entrambi. Lei
badava ai suoi affari ed io ai miei.
Tuttavia
mi rimaneva una sensazione diffusa, vaga, di aver mancato l’essenziale nel mio
percorso analitico. Sensazione che si è confermata quando, leggendo il testo di
Eric Laurent, scoprivo un’altra concezione della psicoanalisi, una concezione
che non è né triste, né deprimente, una psicoanalisi che mi appariva come molto
lontana da quello che avevo incontrato fino ad allora nelle mie sedute. Eric
Laurent indica che nell’analisi si tratta di uscire dal paraocchi del proprio
fantasma, di quello che non cessa di ripetersi, di uscire dal destino triste
che tesse la nostra storia famigliare, per arrivare alla fine dell’analisi a fare del reale, caso. Ovvero, a
liberarsi dalla ripetizione propria al fantasma e ad aprirsi al caso
dell’incontro.
Sottolineo
questa espressione, “uscire dal paraocchi del proprio fantasma” per arrivare
alla fine dell’analisi a fare del reale,
caso. Ovvero, per non essere più accecati da quello che è già conosciuto,
dalla ripetizione del medesimo, dal rigetto del nuovo.
Propongo
adesso di fare una deviazione su quello che costituisce la frase del mio
fantasma, di quello che mi acceca da sempre e che l’analisi mi ha permesso di
cogliere, di mettere a distanza, e anche di attraversare. A seguito di una
nascita difficile, sono stato, nel mio romanzo famigliare, indicato da mia
madre come il bambino del miracolo. Posizione delicata, e anche pericolosa per
ogni bambino quando è in tal modo spinto verso un posto fallicizzato, messo su
un piedistallo e senza difese di fronte alla voracità della madre. Senza dubbio
mi andava bene essere il bambino prescelto, pensarmi come l’eccezione fra i
fratelli. Quello che non andava d’accordo con questa sensazione era il rigetto
continuo che subivo da mio padre. Mi sminuiva continuamente, mi correggeva, mi
rifiutava ogni accesso perché mi facessi un posto nel mondo dei grandi. Essere
l’eletto della madre non è sufficiente.
Non
coglievo la posta in gioco di rivalità fallica di cui ero oggetto. Più ero
l’eletto della madre e più ero sminuito dal padre. Ai suoi occhi non valevo
niente.
Ho
allora orientato le mie azioni in maniera da diventare l’eletto del padre,
l’eccezione avvallata dal padre. Per quanto lontano spinga i miei ricordi, non
ho mai smesso di voler diventare l’oggetto amato dal padre. Tutte le mie
azioni, tutto quello che facevo aveva come orizzonte farmi amare dal padre,
farmi riconoscere da lui, uscire da
questa esclusione di cui soffrivo ma che a mia insaputa mi incantava anche.
Essere
preso in questa prigione in cui rivaleggiavo con colui che volevo sedurre,
essere alienato al farmi amare dal padre, essere chiuso in questa posizione che
ho chiamato fallica, mi lasciava irretito nel mio fantasma nel momento in cui
ho dovuto scegliere una moglie. Intanto con la problematica ossessiva che mi apparteneva,
fu una scelta impossibile, dato che sceglierne una voleva dire rinunciare a
tutte le altre.
Quando
sono stato in grado di sceglierla, è stato ad immagine di colei che figurava al
posto dell’oggetto nel mio fantasma: una donna fissata sul versante
dell’immagine, dell’oggetto, dipendente all’eccesso dal fallo, e che piaceva al
padre. Non dico che la donna che avevo scelto rispondesse a questi tratti. L’ho
scelta a partire da questi tratti, da questi significanti che le ho supposto.
Non
ci sono voluti molti anni perché il velo si strappasse, perché scoprissi che
non era quella che credevo e che io non ero quello che lei aveva immaginato.
Cosa
ha cambiato l’analisi di questo? Qual è stata l’operazione dell’analisi nel mio
rapporto alla partner? Si può uscire da questa presa fantasmatica di cui parla
Freud nel suo testo Sulla più comune
degradazione della vita amorosa? e che Lacan nel suo schema della
sessuazione scrive mettendo il versante uomo come quello che risponde alla
formula del fantasma?
Nel
corso del mio percorso analitico mi è capitato di cambiare analista e di
scegliere un analista verso il quale avevo un transfert da quando lo conoscevo,
dato che per me rappresentava il padre dell’AMP. Anticipavo in quel modo una
divisione in seno all’École de la Cause freudienne…
Con
questo nuovo analista mi sono potuto separare dalla mia prima moglie grazie
alla congiunzione di due fattori: una progressiva scoperta in cui soggettivavo
per la prima volta che il padre da cui avevo ereditato valeva come un piccolo
Stalin. Un tiranno. Con la conseguenza di un allentamento della sua posizione
di onnipotenza. L’altro fattore è stata una parola dell’analista che ha
puntuato uno dei miei enunciati con cui affermavo che non vedevo più alcuna
ragione di restare con la mia prima moglie. L’ho lasciata, sollevato, e ho
potuto passare ad altre cose.
La
cura analitica ha prodotto di conseguenza una riduzione del mio fantasma. Come?
Come ha potuto avvenire questo? Come ha potuto il fantasma ridursi fino a non
essere più ciò che mi acceca totalmente? La cura analitica ha operato una
deconsistenza dell’Altro, dell’Altro paterno. Ha bucato, decompletato la
densità che non cessavo di attribuire al personaggio paterno.
Si
è prodotta una riduzione del fantasma. Lacan parla di traversata come una delle
modalità della fine dell’analisi. Si tratta di una traversata? Ciò che è
innegabile è un’uscita da quell’accecamento del fantasma che orientava tutte le
mie azioni: essere scelto/escluso dal padre.
Ecco
come me lo spiego.
Il
corso delle mie successive analisi mi ha fatto cogliere alla lunga una
ripetizione, in cui c’era sempre un medesimo nodo, ma rivestito in modi
diversi. Dò qui un esempio del modo di trattare da parte dell’analista ciò che
non cessava di ripetersi nella mia vita, ovvero un modo di escludermi, di
uscire di scena, di lasciare tutto e andarmene.
Un
venerdì sera, la vigilia delle giornate dell’École, quelle eccezionali
organizzate da J.-A. Miller, avevo chiesto al mio analista uno spostamento
delle mie sedute in modo da non dovermi recare due volte in una settimana a
Parigi. Arrivo nella sala d’attesa. Non era soltanto piena, strabordava
letteralmente. Le persone erano nel corridoio, aspettavano perfino fuori dallo
studio, e le sedute non duravano più di cinque minuti. Arriva infine il mio
turno. Qualche parola e paf! Taglio della seduta. In strada, letteralmente
esplodo. Mia moglie, che era presente quel giorno, riceve i cocci della mia
collera. Grido, mi arrabbio, fulmino, tempesto e soprattutto giuro che è
finita, che ho perso troppo tempo, troppe energie, troppo denaro con questa
cretinata analitica e che il mio analista è riuscito a mettere un punto finale
alla mia analisi in meno di due minuti. Mia moglie, anche lei in analisi, mi
ascolta, dapprima silenziosa, poi con una voce dolce mi dice: “Vai a
dirglielo”.
Nella
seconda seduta, lunga nonostante la folla, l’analista fa prova di dolcezza e di
un’attenzione sostenuta e amabile. Mi parla, mi indica che di fronte a questo
reale con cui ho a che fare – cioè annullarmi, sparire, eclissarmi, uscire di
scena, cancellarmi – non si è trovato fino ad oggi nulla di meglio della
psicoanalisi. Un po’ come in politica in cui la democrazia è, come diceva
Churchill, il modo meno peggio di governare un paese.
Cerco
di mettere in rilievo questo punto: di fronte ad un padre feroce, ad un Altro
che non mi lasciava altra scelta che sedurlo, farmi l’oggetto che gli manca,
per sperare di trovarmi un giorno seduto alla sua destra, di fronte ad un tale
Altro era sufficiente che non trovassi nelle coordinate di questo Altro un
segno, un indice – anche minimo – di una sollecitudine o di una attenzione
particolare perché si mettessero in moto le conseguenze di cui ho parlato, cioè
una sparizione, un auto annullamento, un’uscita di scena.
L’analisi
nel suo processo continuo di disidentificazione, di sgonfiamento degli ideali,
nella tensione che il desiderio dell’analista permette, che va in senso
contrario all’identificazione, come dice Lacan nel Seminario XI (J.
Lacan, Il Seminario, Libro XI. I quattro
concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino), l’analisi ha reso possibile quello che Lacan chiama
l’attraversamento del piano dell’identificazione e, in tal modo, ha permesso di
presentificare la pulsione. Rileggendo recentemente qualche pagina di Sovversione del soggetto e dialettica del
desiderio nell’inconscio freudiano, notavo quel punto qualificato da Lacan
come S(A barrato), che si legge: significante di una mancanza nell’Altro, o, in
termini di pulsione, la catena che chiude la sua significazione e di cui Lacan
indica che: “è ciò che manca al soggetto per pensarsi esaurito nel cogito, cioè ciò che egli è di
impensabile” (J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino).
Così
Eric Laurent, nel corso della breve discussione che ha seguito la mia testimonianza
durante le Giornate, indicava che l’analisi ha potuto allentare il programma
proprio al mio fantasma e farmi così passare dal NO del padre (il no proferito
dal padre) al padre del NO, cioè occupare io stesso il posto di un padre che
può dire no all’Altro.
Da
quel momento qualche cosa vacilla nella mia vita. Non essere più in balia del
padre, non essere più in balia dell’Altro, dà una leggerezza correlata alla
scoperta dell’inesistenza dell’Altro. L’Altro non è più soltanto colui che è
onnipotente o nullo, l’Altro non è più soltanto colui che sa o che è ignorante,
l’Altro non è più soltanto colui che prende l’iniziativa o che mortifica il
desiderio, scopro che l’Altro è bucato, incompleto, che posso averci a che
fare, e questo trasforma contemporaneamente le mie relazioni con colei che ho
scelto per essere la mia compagna e partner.
Lei
non era già più il sostituto materno che presiede alla scelta della maggior
parte degli uomini. L’analisi ha permesso al soggetto di rinunciare all’oggetto
materno per scegliere una donna che sia Altra.
Lei
non è più neppure la donna che piace al padre. In altre parole, è una scelta
liberata dal peso del giudizio del padre. Lei è anche Altro. Ma lei è
non-tutta, come possiamo leggere nello schema della sessuazione. Non è
agganciata solo a Φ, all’uomo.
Occorre
quindi che il soggetto maschile possa lasciare alla propria partner questo
spazio opaco, questo luogo di un godimento Altro, di un godimento non fallico.
Per questo, è meglio che il soggetto maschile abbia regolato il proprio
rapporto al fallo, cioè che abbia potuto farlo sgonfiare, che ne abbia preso la
misura come un semplice sembiante e niente più.
Diciamolo
in altre parole. Il transfert è amore che si indirizza la sapere. Fino a che il
Soggetto supposto sapere è in opera, l’analizzante ama il suo analista. Siamo
nel registro dell’inconscio transferale. Ma quando il Soggetto supposto sapere
cade alla fine dell’analisi, rimane un altro rapporto al sapere che non
concerne più l’enigma da decifrare del suo inconscio. Il sapere non si
indirizza più all’Altro come questione. Diventa piuttosto un’elaborazione di
sapere, si elabora in forma di conversazione, di dialogo. Ed è molto diverso.
Diciamolo
in modo ancora diverso, per concludere. L’amore vela il non rapporto sessuale.
Amare permette di ricoprire questo impensabile, ed è questo che fa sì che si
cerchi perdutamente l’amore. Ma quando si assume il non rapporto sessuale al
cuore stesso della cura, quando il soggetto esce dall’impotenza della sua
credenza nell’armonia, nel dialogo sempre possibile, nell’accomodamento “win-win” per come lo si intende oggi nei
media, quando il soggetto prende atto di questo impossibile del rapporto
sessuale, l’amore prende allora un’altra colorazione, diversa. La partner non è
più ridotta all’oggetto del proprio fantasma, non si riduce più ad un far
valere fallico per l’uomo. Diventa una compagna, nel senso forte del termine, o
un Altro con cui si può inventare un nuovo tipo di dialogo, fuori dal quadro
del fantasma che accecava fino ad allora il soggetto.
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